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Titolo: A Reason To Fight (ispirato alla canzone "A Reason To Fight" dei Disturbed)
Capitolo: 1
Fandom: Detroit: Become Human
Pairing: Hank/female!OC, Hank/Connor
Warning: si parla di morte, suicidio e argomenti piuttosto pesanti relativi a pensieri di questo tipo.
Wordcount: 7777 - landedifandom
Avvertimenti: Soulmate!AU

Note: Fanfiction scritta per il cow-t con il prompt "TEMPO" per M7 per il team Eva-Lirica. Non è betata, come tutte le fic che sto scrivendo per questo cow-t, ma in futuro lo sarà. (Non è neanche riletta)



Sei giorni, sette ore e quindici minuti e otto secondi.

Il tempo scorreva lentamente e lo aveva fatto sembra alla stessa cadenza per gli ultimi cinquatatré anni. Mai un momento che andasse più veloce.

Se Hank avesse passato ancora del tempo a guardare il suo stesso tatuaggio, probabilmente sarebbe impazzito.

Era comparso sull'interno del suo polso per il suo diciottesimo compleanno e non se ne era più andato da allora. Poteva ancora ricordare distintamente lo spavento nel ritrovarsi qualcosa che non aveva mai deciso di fare, impresso sulla pelle. Se vi passava sopra le dita poteva sentirlo in rilievo, ma la cosa che lo aveva sconvolto di più era stato scoprire che quei numeri segnavano uno scorrere del tempo. Erano, letteralmente, un countdown. Un fottuto reminder di qualcosa che poteva essere... qualunque cosa. Il giorno della sua morte, come quello della sagra della polpetta. Non poteva saperlo e non lo avrebbe scoperto finché quei numeri non avrebbero segnato degli zeri belli tondi, spaccati.

"Devi aspettare, tutti lo fanno," così gli avevano detto dopo aver chiesto per quale dannata ragione sul suo braccio ci fosse un fottutissimo tatuaggio interattivo.

Erano soltanto i primi anni duemila e a stento le persone si sarebbero immaginate come il progresso avrebbe preso piede nelle loro vite, perciò Hank su un primo momento non poté andare molto a fondo. Si fece bastare le rispose dei medici che aveva provato a contattare, i quali dicevano, a rotazione, che ciò che gli era successo non era un caso isolato e che ancora non vi erano studi precisi al riguardo. L'unica cosa chiara era che, prima o poi, quel countdown sarebbe giunto al termine e che lo avrebbe fatto in un giorno particolare A conti fatti, doveva scadere nel 2038 e, per quanto ne poteva sapere lui, sarebbe anche potuto essere il giorno della sua morte. Nel 2038 avrebbe avuto più di cinquant'anni e con la carriera che sognava di fare, non sarebbe stato così improbabile.


E così, Hank aveva semplicemente cominciato ad aspettare, anche se non senza qualche disperato tentativo di fuggire da quello che era un costante ricordarsi che qualcosa, una cosa qualunque, stava per succedere.
Aveva addirittura ponderato un intervento chirurgico, verso i suoi ventidue anni, ma la paura degli interventi aveva vinto.

Spesso indossava dei polsini o si fasciava quella parte del braccio, stringendo il più possibile le bende.

Non aveva mai parlato a nessuno della preoccupazione relativa a quel tatuaggio, aveva semplicemente scelto di dargli meno peso possibile, in apparenza.

Alcune volte però, non era così facile. Quando aveva cominciato ad avere le prime relazioni, le ragazze con cui finiva a letto, gli chiedevano sempre perché avesse un tatuaggio animato sul braccio. Hank tendeva semplicemente a spiegare che era una sorta di strano fenomeno che era comparso per i suoi diciotto anni, ma le ragazze finivano sempre per sentirsi spaventate da una simile "stregoneria".

Ovviamente, Hank non credeva nella magia - sarebbe stato piuttosto assurdo, - ma doveva ammettere che non essendoci una spiegazione logica o scientifica a ciò che gli era successo, l'unica altra soluzione sembrava essere davvero quella mistica.



Gli anni passarono e benché piano piano, quel contatore cominciasse a pesare un po' di meno, al tempo stesso non riusciva a non pensarci. Era andato anche da uno psicologo, perché da solo non sempre si sentiva in grado di reggere il peso di un dubbio simile.

Aveva anche scoperto di non essere l'unico, però.

C'erano delle persone che al compimento dei diciotto anni vedevano comparire sui loro corpi strani tatuaggi e, ognuno di questi, rappresentava uno step importante della loro vita.
Hank si chiese per molto tempo se qualcun altro avesse un tatuaggio come il suo, ma non trovò risposta in nessuno...

Almeno finché non incontrò sua moglie.



Il loro primo incontro avvenne in un giorno di pioggia e in una modalità simile a quella che si vedeva nei film.

Hank era appena uscito da lavoro e la sua macchina aveva deciso, proprio quel giorno, di bloccarsi in mezzo alla strada. Diluviava e la pioggia sembrava non accennare a smettere.

Batté le mani sul volante, pronunciando un "cazzo" stretto tra i denti, mentre si rassegnava all'idea di scendere dalla macchina. Non aveva nemmeno portato con sé un ombrello e quello che solitamente lasciava nel bagagliaio si era disastrosamente rotto durante l'ultimo temporale. A volte si chiedeva se per caso non li facessero con la carta, anziché con il metallo.

Proprio mentre apriva il cofano, un'altra auto si affiancava a lui. Una donna abbassò il finestrino e rivelò il suo volto. Hank non era uno fissato con la bellezza, ma doveva ammetterlo: lei era particolarmente bella. I suoi capelli castani ricadevano morbidi attorno al suo viso e sulle spalle, ma fu il suo sguardo a catturare immediatamente la sua attenzione.

"Serve aiuto?" domandò la donna, guardandolo mentre cercava in maniera goffa e disperata, di ripararsi dalla pioggia usando il cofano aperto.

"La mia auto si è fermata... temo di dover chiamare il carro attrezzi, ma il mio cellulare è scarico!" esclamò Hank, usando un tono di voce forse anche più alto di quello necessario per farsi sentire.

La donna prese il proprio telefono e glielo porse.
"Aspetti, la aiuto," posteggiò la macchina dietro la sua, scese e si avvicinò a lui, coprendolo con il proprio ombrello, anche se ormai era completamente bagnato.

"La ringrazio," disse, sorridendole grato e resituendole il cellulare. Fu in quel momento, che notò sul suo polso una serie di numeri. La manica era leggermente spostata e lasciavano intravedere un otto e uno zero. Hank si immobilizzò. Che quella donna fosse collegata a lui? Sembravano avere davvero lo stesso tipo di tatuaggio, anche se non poteva sapere se il suo fosse effettivamente animato come il proprio.

Si morse il labbro inferiore, tentato di chiederle qualcosa ma decidendo, invece, di trattenersi.

"Si figuri. Questi nuovi telefoni non sono più come quelli di una volta," sorrise, gentile e il cuore di Hank sussultò ancora una volta.

"Mi dovrò sdebitare in qualche modo un giorno," provò lui, "magari posso offrirle un caffè?" chiese, portandosi una mano dietro il collo, imbarazzato.

La donna sorrise, porgendogli la mano.

"Sembra una buona idea. Mi chiamo Allison, a proposito."

"Hank. Mi chiamo Hank," rispose.

"Bene Hank, allora..." prese un pezzetto di carta dalla sua agenda e vi scribacchiò un numero, "questo è il mio cellulare. Mi farebbe molto piacere accettare quel caffè, sai?" la donna gli fece l'occhiolino e le sue labbra si allargarono in un sorriso. Hank si sentì sciogliere, come se improvvisamente il mondo fosse al suo posto. Non pensò troppo neanche alla storia del tatuaggio; Allison sembrava una persona molto interessante, al di là anche del marchio presente sul suo corpo, che poteva voler dire tutto e niente.

Il carroattrezzi arrivò e Allison salì in macchina, salutandolo velocemente e facendogli un gesto con le dita come per dire "chiamami."

Hank annuì, rispondendo con un cenno del capo e con una mano, mentre le loro strade si separavano.

Si chiese se si sarebbero visti davvero per quel caffè e anche se in quel momento era completamente bagnato dalla pioggia e con la macchina a terra, si sentiva comunque l'uomo più fortunato del pianeta. Forse aveva incontrato qualcuno come lui, forse era lei il motivo del countdown sul suo braccio.



Giorni dopo si videro per davvero. Lo presero quel caffè e fu uno degli appuntamenti più belli della sua vita, anche se un po' inaspettatamente, forse.

Allison era gentile, simpatica e sembrava davvero la donna dei sogni. Aveva un fisico nella norma, ma per lui era davvero la donna più bella del pianeta.
Parlarono di tutto in quel primo incontro: delle loro vite, della loro carriera - lei era un'insegnante in una delle scuole medie di Detroit - e dei loro sogni. Allison si era sorpresa nel sapere che Hank fosse un poliziotto, non perché non rientrasse perfettamente nello stereotipo di poliziotto americano, ma perché al contrario di molti sembrava essere davvero gentile e interessato al prossimo, sconfiggendo gli stereotipi che circondavano la sua categoria.



Finirono a parlare del tatuaggio solo tre appuntamenti dopo, tra le lenzuola del letto di Hank.

Aveva notato lo stupore sul volto della donna la prima volta che gli aveva tolto la fasciatura. Si erano guardati per una serie interminabile di secondi, finché lei non si era azzardata a chiedergli per quale motivo lo nascondesse. Lei non si era mai posta lo stesso problema, fiduciosa che quel countdown significasse qualcosa di veramente importante, qualcosa che sarebbe successo in positivo però. Se lo sentiva nella pancia, diceva. Era qualcosa di bello e non poteva essere altrimenti.

Aveva conosciuto altre persone che avevano tatuaggi simili, spuntati all'età di diciotto anni. Solitamente matchavano con qualcuno che avrebbero conosciuto, per questo per Allison, vederlo sulla pelle di Hank, sembrava davvero un segno del destino.

"Magari i numeri non sono così importanti, magari la cosa fondamentale è che lo abbiamo entrambi," disse poi, distendendosi sul letto e appoggiando la testa sul cuscino. Hank si avvicinò a lei, accarezzando con le dita il suo polso.

"Magari sì," rispose Hank, dandole un bacio leggero sulla mano. "Potrebbero anche sparire una volta arrivati allo zero..."

"Forse," rispose lei, facendo le spallucce, "ma ha davvero così tanta importanza?"

Hank non rispose. Aveva ragione, non erano così importanti, ma come faceva a vivere senza pensarci? Senza chiedersi se quel countdown rappresentasse la sua morte o chissà quale altro evento?

Forse doveva imparare da lei, forse doveva davvero rilassarsi prima di essere condotto alla follia da degli stupidi numeri.

"No, in fondo... non ce l'ha."

Allison si sporse verso di lui e lo baciò, accarezzandogli il volto.
"Sono sicura che sarà qualcosa di bello. Smettila di preoccuparti e fidati di me."

Hank sorrise e ricambiò il bacio.



Avrebbe voluto fidarsi, ma forse aveva fatto bene a non farlo. Perché forse Allison si era sempre sbagliata, lei e il suo sentimento positivo.

Lo sapeva bene in quel momento, di fronte alla sua tomba, mentre la pioggia cadeva incessantemente, esattamente come il giorno in cui si erano incontrati.

Hank era lì, in ginocchio, senza alcun ombrello pronto a coprirlo, senza il sorriso di sua moglie ma, soprattutto, senza il sorriso del suo bambino. Del suo Cole.

Era il duemilatrentacinque e quella era una uggiosa giornata di pioggia di un Ottobre tremendo, il peggiore della sua vita.

E mentre i giorni sul suo polso continuavano a scorrere, quelli di Allison si erano fermati l'undici ottobre del duemilatrentacinque.

Quella mattina, Allison si era alzata normalmente. Aveva preparato la colazione per tutti, l'aveva servita a tavola e si era messa in auto per accompagnare Cole a scuola come di consueto, per poi dirigersi a lavoro. Si era fatta bella, ma lei era sempre bella.

Era un giorno speciale, diceva lei. In qualche modo si era sempre aspettata di vedere quegli zeri il giorno in cui sarebbe nato il suo primo figlio, ma con stupore non fu così. Quindi aveva detto ad Hank che forse, quel giorno, avrebbe preso un test di gravidanza in farmacia, per vedere se quegli zeri avrebbero determinato una seconda gravidanza. Hank aveva scosso la testa, non convinto per l'affermazione della moglie, ma sembrava così sicura che non se la sentì di contraddirla, lasciò semplicemente che... ci credesse. Era giusto così.

Invece, di fronte alla tomba, mentre le lacrime si mescolavano con la pioggia, Hank avrebbe voluto fermarla. Avrebbe voluto dirle che quegli zeri non presagivano niente di buono, che lui aveva sempre avuto ragione, che avrebbe accompagnato lui Cole a scuola e che, magari, le avrebbe anche comprato il fottutissimo test di gravidanza.

Avrebbe voluto fare tante cose ma, ormai, era troppo tardi.

Si chinò sulla dura pietra sotto di lui, abbracciando la tomba del figlio e guardando quella della moglie. Il destino gliel'aveva portati via. Il tempo glieli aveva portati via. La sua esistenza non aveva più senso.
Da quel giorno, Hank se ne era convinto, quel countodown sul proprio polso acquisì finalmente un significato: quei giorni erano senz'altro il tempo che gli rimaneva da vivere.

E quindi cominciò a vivere come se ogni giorno fosse l'ultimo, sperando che i minuti scorressero sempre più velocemente e che il tempo passasse in modo diverso, meno... lento.

Ogni mattina svegliarsi era un'agonia.

Apriva gli occhi, guardava la sveglia, la spegneva controvoglia, andava in bagno, si lavava i denti e cercava i primi vestiti che gli capitavano a tiro. Per un po' di tempo era rimasto semplicemente a letto per settimane, bevendo birra e ordinando cibo online, finché Jeffrey non era stato a casa sua e aveva deciso che no, non poteva buttarsi via così, non doveva buttarsi via così.

Ma cosa c'era da vivere quando tutto ciò a cui tenevi non era più lì con te? Hank se lo chiedeva spesso, mentre meditava il suicidio.

Si chiedeva se per caso una pallottola nella testa avrebbe potuto risolvere il suo problema. Se quei numeri sarebbero schizzati improvvisamente verso lo zero oppure no. Sarebbe stato interessante controllare il tempo, controllare così la sua morte o vita. Tuttavia era troppo codardo per farlo.

Così, Hank aveva deciso di uccidersi piano, giorno per giorno, convinto che quei numeri avrebbero definito quanto l'alcol lo consumasse pian piano. E quindi beveva, beveva fino a non ricordare più il suo nome, fino a collassare sul letto, fino a venir portato al pronto soccorso, qualche volta.

Jeffrey lo aveva minacciato ancora una volta e Hank gli aveva risposto poco cortesemente che poteva andarsene a quel paese, lui e il maledetto lavoro. Perché avrebbe dovuto ancora interessargli, in fondo? Cosa c'era di bello da vivere quando tutto il mondo intorno a lui ormai era collassato su se stesso?
Sua moglie se ne era andata. Suo figlio se ne era andato. Perché quel tatuaggio per qualcuno sarebbe potuto essere semplicemente un monito, magari un invito a godersi la vita, e invece per lui sembrava soltanto una condanna?

Secondo i giorni segnati, mancavano ancora tre anni alla sua ora e lui non voleva davvero saperne di vivere altri tre lunghissimi anni.

Jeffrey gli aveva suggerito la terapia e forse il se stesso di un tempo la avrebbe consigliata ad un amico, ma in quel momento l'unica cosa che voleva era affogare in un bicchiere di rhum per non uscirne mai. Se avesse potuto scegliere di essere ubriaco o dormire finché quel countdown non fosse finito, beh, sicuramente ci avrebbe provato. Purtroppo però non era così e, dopo numerosi inviti da parte di tutti coloro che conosceva, Hank tornò a fasciarsi il polso e accettò di andare da una terapista.

Le prime sedute non andarono troppo bene e quelle successive beh, neanche. L'unica nota positiva era che, nonostante tutto, forse qualche piccolo progresso lo stava facendo.

Continuava ad ubriacarsi, ma di tanto in tanto tornava sul posto di lavoro e si presentava in ufficio sobrio. Aveva cominciato di nuovo a seguire qualche caso, anche se pochissimi, e in parte aveva cominciato a parlare concretamente della perdita che aveva subito.

Hank prima dell'incidente non era una persona realmente introversa. Era uno di quei tipi che non si scioglieva immediatamente, forse, ma non eccessivamente introverso. Sapeva quando era il tempo e il luogo giusto per lasciarsi andare e, tatuaggio a parte, era sempre stato anche una persona propositiva e che amava il proprio lavoro.

Ovviamente la morte di Allison e Cole aveva cambiato molte cose e, soprattutto, lo aveva reso insofferente al prossimo. Non gli importava più dei problemi degli altri né, tantomeno, di quelli che la società stava affrontando.

Nell'ultimo periodo sembravano esserci problemi riguardo all'accettazione e integrazione degli androidi nella società. Persone che perdevano il lavoro sostituiti da quelle macchine e che protestavano affinché ne venisse cessata la produzione. Ad Hank faceva un po' ridere la cosa, perché la CyberLife non avrebbe mai chiuso i battenti nel cuore della sua produzione.

Senza contare che, per quanto lo riguardava, gli androidi non sarebbero mai entrati nella sua vita.

Strinse una lattina di birra mentre sfogliava il giornale elettronico. Per colpa di uno di quei cosi di latta Cole era morto.

C'era un dettaglio, infatti, di cui Hank aveva parlato poco o niente dopo la morte di sua moglie e suo figlio. Mentre la donna era stata ritrovata priva di sensi subito dopo l'incidente - pareva fosse morta sul colpo, - suo figlio invece era stato portato all'ospedale e aveva una vaga speranza di essere salvato. Peccato che il medico di turno non fosse presente e l'androide che doveva sostituirlo non fosse sufficientemente preparato.

Già, la preparazione. Non doveva forse essere perfetto in quanto macchina?

Per questo ogni volta che Hank leggeva di androidi scorreva velocemente gli articoli; erano tutte buffonate, tutti business, tutto circolava intorno ai soldi ormai e niente di più. In fondo, però, non era sempre stato così?
Appoggiò i gomiti sul tavolo, fissando una foto del piccolo Cole e meditando sulla pistola, sempre vicina a lui, sempre la sua migliore amica.

Forse avrebbe potuto spararsi per davvero. Forse avrebbe potuto giocarglielo un cazzo di smacco, a quel tatuaggio.

La prese tra le mani e se la appoggiò sulla tempia. La canna fredda premeva su di lui, il dito sul grilletto. La roulette russa.

Avrebbe potuto provarci... se solo ne avesse avuto il coraggio.

Buttò la pistola lontana, sul tavolo, provando un livello di rabbia indicibile. Perché continuava a fare così? Perché continuava a... non sentirsi in grado di andare avanti, ma nemmeno di interrompere finalmente la sua agonia?
La sua vita ormai si divideva tra il lavoro e il cimitero - intervallata da serate trascorse al Jimmy's Bar. Il suo punto di riferimento, la sua isola deserta.



"Non puoi continuare così," Jeffrey era appoggiato alla scrivania. Aveva le braccia incrociate e l'espressione seria. "Ti stai lasciando andare."
Ed era vero. Era passato un anno dalla morte della sua famiglia ed Hank aveva acquisito almeno dieci chili e un bel po' di centimetri di barba. Il suo volto si faceva sempre più segnato dall'età, fin troppo per un uomo di appena cinquant'anni.
"Hai ragione," rispose Hank, facendo le spallucce. "E quindi?"

"E quindi voglio farti indagare ancora sulla Red Ice," l'uomo gli porse un fascicolo e Hank lo guardò senza prenderlo.
"Perché, Jeffrey? Dimmi... Perché?"
"Perché credo che possa essere di tuo interesse," l'uomo lo aprì, porgendogli un foglio. Sul pezzo di carta vi era la foto di un uomo sulla quarantina. Si chiamava Jack Hummel.

"E quindi?" chiese poi Hank, alzando lo sguardo verso il capo.

"Lui potrebbe essere il medico che cercavi. Quello assente durante... quel giorno," disse, ritirando il foglio, "potrebbe essere più coinvolto nella questione Red Ice di ciò che crediamo," spiegò Jeffrey e lo sguardo di Hank cambiò in mezzo secondo, divenendo lucido, interessato.

Gli prese il foglio dalle mani e lo lesse, stringendolo fin troppo forte e stropicciandolo un poco.
E se tutte le sue convinzioni fossero appena crollate in un mezzo istante? E se non fosse stata veramente colpa di quell'androide, o almeno non direttamente?
Hank lasciò il foglio, appoggiandolo sulla scrivania lì vicino.

"Ci devo pensare."
Jeffrey lo guardò negli occhi, severo.

"Non ci pensare per troppo tempo, Anderson. Agisci e basta. Non c'è nessuno migliore di te per questo caso e lo sai."
Hank aveva già indagato sullo spaccio di Red Ice ed era stato uno dei più giovani tenenti del dipartimento proprio per la sua bravura con le indagini. Aveva fatto carriera velocemente e se era successo un motivo doveva pur esserci.

"Ci devo pensare," rispose Hank, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans.

"Accetterai."
Alzò lo sguardo, serio.

"Forse," rispose, guardandosi le scarpe. Non c'erano motivi per non accettare, se non che un indagine del genere avrebbe potuto risvegliare i mostri che aveva cercato di placare per tutto l'anno precedente. Non che, in fondo, si fossero realmente placati, ma stava imparando lentamente a tenerli a bada, almeno qualche volta.



Alla fine, Hank accettò l'incarico dopo averci bevuto su per almeno due o forse tre giorni. Non se lo ricordava distintamente, ma tornò al dipartimento con la convinzione di chi doveva fare qualcosa per il bene di Cole. Certo, scoprire se quel figlio di puttana fosse realmente fatto di Red Ice la sera della morte di Cole o se, peggio, la spacciasse, non sarebbe stato davvero utile per suo figlio, ma almeno avrebbe potuto capire con chi arrabbiarsi. Fino a quel momento l'unico capro espiatorio era stato l'androide che aveva avuto la sfortuna di avere tra le mani il corpo del bambino, ma la verità era che Hank sapeva che c'era qualcosa di più. Quantomeno poteva essere un buon motivo per continuare a vivere e non desiderare di morire ad ogni respiro.



1 Novembre 2038



Pioveva. Succedeva spesso a Detroit. Pioveva il giorno dell'incontro con sua moglie, pioveva il giorno della morte della sua famiglia, del loro funerale e pioveva anche quel giorno, quello che sembrava essere l'inizio di un decisivo conto alla rovescia.

Hank aveva smesso di portare le bende, almeno occasionalmente. Lasciava che il tempo scorresse sempre più vicino al termine. Mancavano cinque giorni, una manciata di ore e minuti e finalmente la sua vita sarebbe giunta al termine.

Era proprio vero, quel dannato tatuaggio lo aveva tenuto in vita fin troppo e anche il destino non aveva riservato cattiverie verso di lui. Le poche e rare occasioni in cui era stato vicino alla morte, qualcuno o qualcosa lo avevano sempre salvato. E se l'Hank di un tempo gli sarebbe stato grato, quello pieno di traumi riusciva solo a maledire quella che sembrava essere una benedizione.

Comunque, il contatore sul suo polso si avvicinava alla fine e Hank non vedeva l'ora di morire. Strano ma vero.

Aveva vissuto gli ultimi trentacinque anni interrogandosi sulla motivazione del suo tatuaggio e l'unica spiegazione era quella che aveva sempre sospettato. Chissà perché alcune persone che aveva conosciuto avevano inciso sulla loro pelle un disegno o una parola, qualcosa di bello, e invece a lui era toccato proprio quel monito, quel segnatempo che non lo lasciava mai in pace. Forse era nato sotto una cattiva stella.

Comunque, nessuno avrebbe mai avuto il privilegio di sapere quando sarebbe morto. Privilegio perché un conto è morire e basta, un conto è essere preparati. Sapeva cosa fare: doveva andare a mangiarsi un panino bello grasso, doveva andare a bere più che poteva e doveva visitare, almeno un'ultima volta, la tomba della sua famiglia. Poteva fare tutto questo, aveva ancora cinque giorni - o forse quattro, ad occhio e croce - e non poteva proprio sprecare l'occasione.

Hank passò in ufficio come al solito. Salutò Fowler al volo e andò alla propria scrivania, portando con sé una scatola di ciambelle aprendo pigramente il suo pc. Nell'ultimo periodo si stavano verificando diversi incidenti riguardanti degli androidi che sembravano perdere il controllo e riversarsi sugli umani. Jeffrey aveva provato a condurlo verso quelle indagini, ma la verità era che ormai ad Hank non importava più niente di... niente. Non voleva saperne, né di androidi, né di omicidi, né di indagini. Nessuno sapeva cosa stava passando, non aveva voluto parlarne: non voleva farne una tragedia. Per lui non lo era, anzi, l'idea di morire era più una liberazione. Finalmente avrebbe potuto raggiungere suo figlio e sua moglie.

A metà giornata salutò con un cenno della mano e si diresse verso il cimitero. Aveva già deciso, avrebbe preso posto lì con loro, se lo era fatto riservare.

"Bello scherzo, eh," disse, infilandosi le mani in tasca e guardando le due lapidi dall'alto, "la fortuna di avere un timer sul proprio braccio che ti ricorda che tra qualche giorno succederà qualcosa..." si alzò la manica. Nessuna benda copriva il tatuaggio. "Pensavo che avessi ragione, Allison. Pensavo che davvero, questo fottuto marchio potesse avere una connotazione positiva... chi poteva dirlo. E invece no, alla fine era soltanto ciò che avevo sempre pensato che fosse; un monito di morte. Ma dimmi, perché mai un ragazzino di diciotto anni dovrebbe meritarsi una cosa simile? Forse per vivere meglio la vita? beh, la mia vita ha fatto abbastanza schifo. O almeno, ha fatto schifo nel momento in cui voi ve ne siete andati. Mi chiedo ogni giorno perché non ci fossi io, perché quel countdown non fosse per me..." sussurrò, inginocchiandosi e appoggiando dei fiori su entrambe le tombe.

"Mi mancate così tanto..." si piegò in avanti, contorcendosi su se stesso e stringendo i pugni, "così tanto..."

Le lacrime scorrevano sul suo viso, fino a bagnare la sua barba ispida. Hank non vedeva l'ora che fosse il cinque novembre.

Forse sarebbero stati i cinque giorni più lunghi della sua vita.



2 Novembre 2038



Hank si svegliò la mattina, fece colazione con una scatola di ciambelle - vuote, al cioccolato, alla crema, - e poi tornò al cimitero.

Portò con sé qualche altro dolcetto, dei fiori nuovi e si sedette di fronte alle tombe, come il giorno precedente.
Decise che avrebbe ripetuto quella cosa fino al cinque novembre.



5 Novembre 2038



Quando aprì gli occhi, la mattina, Hank guardò istintivamente il proprio polso. Mancavano ancora circa dieci ore alla sua morte. Quindi sarebbe successo nel tardo pomeriggio, prima serata.

Si alzò dal letto e si infilò la prima camicia che gli capitò a tiro.

Si guardò allo specchio. Il suo riflesso in quel momento sembrava meno nitido del solito, forse colpa della quantità di alcol bevuta la sera prima. I post it che aveva attaccato lì gli sembravano inutili, adesso. Erano dei piccoli reminder, aveva letto quella stronzata su internet "scrivi dei messaggi motivazionali e spargili per casa" e una sera lo aveva fatto davvero. Li aveva messi sullo specchio, in cucina e in camera. Dalla camera, però, erano spariti quasi subito. Aveva deciso di tenere quelli in bagno perché svegliarsi ogni mattina e vedere la propria faccia a volte non era così facile e quelle scritte gli rendevano il compito un po' meno arduo. Gli ricordavano che forse anche lui era meritevole di vivere ancora.

Ma ormai non aveva più importanza.

Che facevano le persone quando sapevano di stare per morire? Andavano a fare grandi viaggi? Aiutavano le vecchiette ad attraversare la strada? Hank non lo sapeva. L'unica cosa che voleva fare quel giorno era trovare un nuovo padrone a Sumo.
Già, Sumo. Il grande vecchio cane che gli aveva tenuto compagnia in tutta quella sventurata vicenda.

Lo aveva preso per i quattro anni di Cole. Glielo aveva portato a casa ed era diventato subito il bambino più felice del mondo. Sumo a volte era davvero l'unica ragione per cui non si piantava una pallottola in testa.

Ma adesso il tempo era giunto e lui avrebbe dovuto lasciarlo a qualcuno, perché non si meritava di stare solo. A chi avrebbe potuto darlo senza allarmare o farsi fare mille domande?
Non voleva dare alcuna risposta, né spiegazione.

Una volta vestito, Hank si diresse verso la cucina, si fece un caffè al volo e si sedette al tavolo, fissando la foto di Cole. Chissà come sarebbe morto.

Forse in un incidente stradale anche lui? O magari qualcuno gli avrebbe sparato?

In cuor suo non sapeva nemmeno se voleva andare a lavoro e si sentiva irrequieto. Mai avrebbe immaginato di sentirsi così il giorno in cui il suo countdown stava per giungere al termine.
Aveva la grazia di poter decidere dove morire, se nel proprio letto o in un luogo pubblico. Egoisticamente avrebbe preferito rimanere in casa tutto il giorno, magari disteso sul divano, ma d'altra parte Jeffrey lo aveva chiamato per un'indagine e Hank non voleva rifiutare. Era un giorno come un altro, dopotutto, almeno per loro. Gli avrebbe fatto piacere salutare quelli della centrale almeno una volta, sì, anche quello stronzo di Gavin, il collega più infame che gli fosse capitato negli ultimi dieci anni.

Qualcuno avrebbe sicuramente gioito della sua scomparsa e probabilmente Gavin era tra questi e, forse, qualche criminale che aveva acciuffato durante le sue indagini.

Appoggiò la foto sul tavolo e la rivolse verso il basso, coprendola. Ormai c'era poco da fare, se non scrivere un breve testamento.

Prese un pezzo di carta e cominciò a scribacchiare, cancellando con una riga alcune parole. Non sapeva neanche che cosa dire. Non aveva nessuno a cui lasciare le sue cose, forse solo Jeffrey, Ben e qualche altro collega.

Si passò una mano sul viso, mentre gli occhi si riempivano di lacrime.
Contrariamente a ciò che aveva pensato in tutti quei giorni, l'idea di essere a un passo dall'al di là, adesso gli faceva paura e lo faceva soffrire. Sembrava totalmente un controsenso, dal momento che c'aveva provato con tutte le sue forze a porre fine ai suoi giorni, eppure ora che la cosa stava diventando reale, si sentiva impaurito. Sì, aveva fottutamente paura.

Sospirò, cercando di riprendersi e buttò giù qualche riga confusa, chiedendo soprattutto a Fowler di prendersi cura di Sumo. Non avrebbe potuto fidarsi di nessun altro e sapeva che forse lo avrebbe odiato per non avergli detto niente di tutta quella storia, ma non aveva mai avuto il coraggio di parlarne con nessuno.

Hank era pur sempre un tipo introverso e per molti la sua vita privata era un mistero, specialmente dopo il giorno dell'incidente. Alcuni avevano provato ad avvicinarsi a lui per supportarlo, ma nessuno era riuscito mai a scoprire troppo su di lui e sulla sua quotidianità. Aveva sempre tenuto uno schermo tra sé e il prossimo, a partire dagli amici, fino ai colleghi e alle persone che, in quegli anni, si era portato occasionalmente a letto.

Finì di scrivere la sua lettera e la piegò, mettendovi vicino la foto - ancora rovesciata - di Cole.
Si alzò, diede un ultimo sguardo al tavolo e tornò in sala, accarezzando Sumo e portandolo fuori a fare i bisogni.
Gli veniva da piangere, ma non voleva farlo. Voleva essere felice di quel giorno, anche mentre i minuti continuavano a scorrere sul suo polso sempre più veloci, sempre più minacciosi.

Andava bene così, però.



Arrivò in centrale con una scatola di ciambelle un po' più grande del solito, quella mattina. Le offrì a tutti, stupendo ogni presente, perché Hank non era certo il tipo da fare gesti simili. Forse lo era un tempo, ma non l'Hank degli ultimi anni. Era diventato scorbutico, scostante, cinico e assolutamente tutto tranne che gentile col prossimo.

"Domani pioverà," asserì un collega, sorridendogli mentre addentava una ciambella.

"Non fatico a crederlo," rispose Hank, abbozzando un sorriso e prendendone una a sua volta. Di solito pioveva sempre nei giorni di morte, quindi non sarebbe stata una sorpresa.

"Come mai così tanta gentilezza, oggi?" domandò Jeffrey, avvicinandosi ad Hank con un fascicolo tra le mani, probabilmente di un indagine che voleva assegnargli.

"Non lo so, diciamo che è... un giorno particolare," affermò, tagliando corto.

L'uomo fece una smorfia e prese uno dei dolci portati da Hank, cominciando poi a spiegargli il caso sul quale avrebbe dovuto indagare quel giorno e che, a quanto pare, riguardava l'omicidio di una famiglia compiuto da un androide.

Hank sbuffò. Un caso di merda per il suo ultimo giorno di vita. Beh, non sembrava così strano, in fondo. Non che la sua vita fosse costellata da cose belle, cosa poteva pretendere?
"Tutto chiaro?"
Hank annuì, prendendo il fascicolo e guardandolo distrattamente, appoggiandolo poi sulla scrivania. Ci avrebbe pensato dopo... forse.



Il motivo per cui Hank fosse andato a lavoro anche quel giorno era semplice: nonostante tutto, la carriera era l'unica cosa che lo aveva salvato dal baratro totale in quegli ultimi anni e non avrebbe avuto senso mollare l'ultimo giorno. Era pur sempre qualcosa che lo teneva attaccato alla realtà.

Però, dopo le indagini - tremende, tra l'altro. Della famiglia era sopravvissuta solo la bambina - si era diretto al Jimmy's bar, il suo luogo di fiducia. Aveva trascorso lì la maggior parte delle sue serate dopo la morte della sua famiglia. Conosceva assai bene il proprietario ed era un posto dove gli androidi non potevano accedervi, il che non faceva altro che far guadagnare punti al locale, almeno per quanto lo riguardava.

Si sedette al bancone e ordinò il solito, Jimmy lo guardò con l'aria di chi non era propriamente convinto dal suo stato, ma non fece domande.

Ecco, forse Jimmy era quello che lo conosceva un po' meglio in quella città. Era lui che si subiva tutte le sue chiacchiere e sproloqui da ubriaco e che aveva ascoltato innumerevoli volte la storia della sua famiglia.

Quel giorno, però, Hank decise di non dire niente. Cominciò a bere e fissò il timer sul suo polso. Forse sarebbe stato poco decoroso morire lì dentro, ma avrebbe potuto fingere di addormentarsi sul bancone, magari avrebbe potuto incrociare le braccia e appoggiarvi sopra la testa. Magari sarebbe morto per coma etilico.

Magari... magari...

Cominciò a sudare freddo.

Era scattata l'ultima ora da un po' e gli zeri cominciavano ad aumentare sempre di più, fino a procurargli una sensazione di disagio all'altezza dello stomaco.
Voleva morire.

Non voleva morire.

Voleva davvero morire.

Non voleva davvero morire.

Aveva paura.

Ne aveva tanta.

Avrebbe dovuto avvisare qualcuno?
Avrebbe dovuto chiamare Fowler? O magari Ben?

Sarebbe dovuto andare a casa?
Avrebbe dovuto abbracciare Sumo un'altra volta?
O magari farsi trovare sulle tombe della sua famiglia?
Qual era la cosa giusta da fare?
Gli veniva da piangere.

O, buon Dio. Da piangere.
Cos'era? Cos'era quella sensazione al petto?
Stava morendo in quel momento?
Prese la foto della famiglia che teneva nel portafoglio. C'erano tutti e tre, sorridevano.

Una lacrima solcò il suo volto, Jimmy gli preparò un altro drink.

Minuti.

Mancavano pochi minuti.

Come lo scadere della mezzanotte durante il trentuno dicembre, Hank guardava il timer sul suo polso scorrere. Prima lentamente, poi velocemente.

Una sensazione di tristezza gli stringeva lo stomaco, si sentiva soffocare.

Come sarebbe morto, quindi? Infarto? Arresto cardiaco?

Tre.

Due.

Uno.

Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte sulle braccia conserte.
Era ora.

La porta del locale si aprì, Hank poté sentirla distintamente.

Alzò lo sguardo.

Sul suo polso il tatuaggio segnava degli zeri e stava scomparendo lentamente, l'inchiostro - o quello che era - diventava grigiastro.

Erano zeri. Degli zeri tondi.

E lui non era morto.

L'aria gli mancò. Perché non era morto? Si misurò il battito. Era vivo, era ancora fottutamente vivo. L'aria circolava ancora nei suoi polmoni, il sangue pulsava ancora nelle sue vene. Contrariamente a ciò che aveva sempre pensato, il cinque novembre del duemilatrentotto, non era morto.

Quindi... che cazzo di scherzo era quello?

"Tenente Anderson?"

Una voce lo riportò alla realtà, mentre con occhi sbarrati continuava a fissare il suo tatuaggio, che ancora se ne stava lì, fermo sullo zero.

Si voltò, trovando al suo fianco un androide mediamente alto e che indossava una giacca grigia. Jimmy non lo aveva ancora buttato fuori dal locale? Perché? Al momento non voleva pensare a nient'altro se non al fatto che nonostante tutto era ancora vivo.

Hank fece un gesto spazientito.

"Non ho tempo. Vai a rompere a qualcun altro," mormorò, stringendo il bicchiere di fronte a sé. La manica alzata rivelava i numeri impressi sulla pelle.

"Mi chiamo Connor, sono l'androide della CyberLife."

Hank lo guardò con disprezzo.

"Ho provato a cercarla in centrale, ma nessuno sapeva nulla. Dicevano che forse era andato a bere qualcosa." Esitò. "Per fortuna al quinto bar l'ho trovata."

"Cosa vuoi?" rispose Hank, senza alzare la testa.

"Le hanno assegnato un caso, oggi pomeriggio. Un omicidio. Un androide della CyberLife. La società ha quindi concordato l'invio di un modello specializzato per supportare le indagini."

"Non mi serve nessun supporto. Specialmente da un coglione di plastica come te. Perciò fai il bravo robot e levati dalle palle" rispose Hank, svogliatamente. Non voleva collaborare con un coso di metallo, plastica, o quello che era e, in ogni caso, doveva capire per quale motivo non fosse ancora morto.
Quando avevano ritrovato il corpo di sua moglie, avevano visto sul suo braccio il tatuaggio di un colore simile a quello che aveva lui adesso. Somigliava a una cicatrice e non era più "animato". Se ne stava lì, fermo sullo zero.

Ma anche ammesso che il suo conto alla rovescia non fosse davvero per la sua morte, ammesso che avesse vissuto quegli ultimi anni pensando che sarebbe morto il cinque novembre duemilatrentotto, ammesso che si fosse sbagliato...

Qual era l'evento significativo segnato da quel maledetto tatuaggio? Non poteva e non voleva crederci di aver vissuto la sua intera esistenza pensandoci e poi puf, niente di fatto, solo un dannato caso, solo qualcosa che non significava... niente.

Voleva piangere. Anzi, voleva piangere e spaccare tutto.

"Lo stesso drink, perfavore," la voce dell'androide al suo fianco lo riportò alla realtà e Jimmy gli sbatté un altro bicchiere di rhum davanti alla faccia.

Hank guardò l'androide, sottecchi.

E se...

No, non voleva pensarlo nemmeno per scherzo.

Non poteva essere realmente quello il suo countdown.

Una vita passata ad immaginarsi i più disparati scenari e poi... e poi un androide sarebbe davvero potuto essere il suo destino? Doveva essere uno scherzo. Quando aveva diciotto anni, neanche esistevano gli androidi!

"Fallo doppio," mormorò Hank, chiedendo altro alcol a Jim.

Connor, dietro di lui, continuava ad aspettare e guardarlo. Hank si sentiva terribilmente infastidito dalla sua presenza.

"Beh? Cosa vuoi? Hai parlato di omicidio, ma non mi hai fornito i dettagli."

Prese tra le mani il bicchiere e bevve, guardando storto l'androide, incuriosito dalla sua presenza. Se non poteva ottenere risposte sul momento, quantomeno forse doveva almeno ascoltare cosa avesse da dire. Magari le sue informazioni gli avrebbero dato una valida ragione sul perché fosse ancora vivo.

"Dobbiamo andare sulla scena del crimine insieme, da ciò che ha detto il capitano Fowler. Sono stato assegnato a lei come suo partner per le indagini sugli omicidi compiuti dagli androidi nell'ultimo periodo."

Hank avrebbe voluto rispondergli che non gliene fotteva niente, in quel momento, degli omicidi. Ma la verità era che era così stordito dall'alcol e dalle sensazioni provate, che non aveva idea di cosa fare o pensare. Guardò Connor - si chiamava così? Sulla sua divisa poteva leggere soltanto un RK800 - e poi guardò di nuovo il proprio bicchiere, ormai vuoto.

"Va bene," rispose, sospirando e dando un'occhiata a Jim, il quale lo guardò con aria interrogativa mentre serviva un altro drink.

"E' tuo?" chiese, l'uomo.

"No, non lo è," tagliò corto, alzandosi e lasciando una banconota sul bancone, facendo un cenno con la mano e uscendo dal locale senza controllare se l'androide lo stesse effettivamente seguendo o meno.

La porta del Jimmy's bar si chiuse alle sue spalle con un piccolo tonfo, Connor era immediatamente dietro di lui, pronto a seguirlo passo dopo passo.



"Prendiamo un taxi?" chiese Connor, guardando Hank. L'uomo lo guardò con aria indisposta.

"No, ce la faccio a guidare."
"Ma ha bevuto."
"Ce la faccio," rispose, categorico e severo. Sapeva che non era prudente mettersi alla guida in quello stato, ma magari sarebbe successo qualcosa. Qualunque cosa.
E no, non sentiva alcuna responsabilità verso quel pezzo di plastica. Per quanto ne sapeva lui, era solo un insieme di circuiti più o meno ben assemblato.

Salì in macchina e si voltò verso il giovane androide, il quale si era seduto sul sedile del passeggero in una posa innaturale, rigida.
A guardarlo meglio, quel robottino sembrava in tutto e per tutto un umano. Dannazione, era pure imperfetto. Aveva delle piccole lentiggini sul volto, poteva vederne i pori della pelle se si fosse avvicinato abbastanza e i capelli sembravano dannatamente veri.

Non che non avesse mai visto bene un androide, ma Connor lo aveva fatto riflettere su quanta poca differenza sembrava esserci tra un umano e un androide.

Appoggiò le mani sul volante e poi vi posò la fronte, sospirando.

"Senti io..." cominciò, "è stata una giornata pesante. Non credo di essere nelle condizioni per indagare su un caso, per stasera," la sua manica scivolò poco più giù, rivelando i numeri sbiaditi. Non riusciva a crederci. Menomale non aveva accennato a nessuno della sua imminente e presunta morte, sarebbe stato piuttosto imbarazzante dover spiegare che no, sfortunatamente per lui, era ancora vivo e vegeto.

"Però ti stanno aspettando," ribadì Connor, ancora nella stessa posa di prima.
Hank alzò la testa.

"Cosa non ti è chiaro del 'non sono in condizioni'? Mi vedi? Sono ubriaco e fino a boh, non so quanti minuti fa, pensavo che sarei morto! Poi sei spuntato tu, con quella faccia da idiota e... e che devo dire, non sono morto. O forse sì, però cazzo se lo fossi non vorrei vedere te, ma probabilmente un sacco di altra gente tipo..."

Connor inclinò la testa leggermente di lato, curioso. Sembrava quasi che lo stesse analizzando.

"Lascia stare. Comunque sia, smettila di rompere il cazzo e ti prego, vai da qualcun altro. Ci sono una marea di persone là fuori più idonee di me per questo compito," disse, sospirando.

"Non credo sia così, tenente."
"Beh, credi male. Io devo ancora capire che cazzo fare della mia vita, dal momento che ho vissuto gli ultimi boh, quattro anni? a credere che oggi sarei morto."

L'androide si accigliò.

"Perché pensava di morire oggi? E perché mai farlo al Jimmy's Bar?" domandò, analitico, freddo, distaccato.

Hank sentì i nervi riscaldarsi e il sangue pompare più velocemente. Aveva voglia di picchiarlo.

"Perché?! Per questo!" si alzò la manica goffamente, con uno scatto veloce, arrotolandola su se stessa e svelando per la prima volta il suo tatuaggio. Lo avevano visto altre persone prima, naturalmente, ma non ne aveva mai parlato con nessuno se non con medici e con la sua defunta moglie.

Connor lo guardò e per un attimo Hank poté giurare di averlo visto fare un piccolo scatto, ma poi sembrò rimanere impassibile.

"Vedi questo?" ringhiò Hank, "questo doveva essere il monito della mia morte. E invece indovina un po'? Non ha funzionato. Probabilmente è solo un modo carino di Dio per dirmi che sono così testa di cazzo che merito di rimanere su questa terra infernale dove ormai niente vale la pena di essere vissuto," disse, stringendo la stoffa e sentendo le lacrime pungere i suoi occhi. Connor avvicinò una mano per accarezzare gli zeri e lo guardò senza dire una parola.

"Sono qui, a parlare con te, invece dovrei essere morto..." sussurrò, chiedendosi se dovesse ringraziare una qualunque divinità o forse maledirla. Ancora non lo aveva capito con precisione.

Hank non ritrasse il polso al tocco di Connor, ma piuttosto avvertì una strana vibrazione, qualcosa che lo scosse profondamente da... dentro. Non avrebbe saputo dare una spiegazione concreta a quella sensazione, ma era qualcosa di diverso.

Forse gli aveva fatto qualcosa?
"Era un tatuaggio del destino?" domandò Connor.

"Non so cosa intendi," rispose, confuso.
"I tatuaggi che compaiono all'età di diciotto anni su alcuni individui si chiamano 'tatuaggi del destino', ognuno di essi determina qualcosa sulla persona che lo possiede. E' un dono, ma non viene concesso a tutti."
Hank si accigliò, ridendo amaramente subito dopo.

"Un dono? Una maledizione, vorrai dire. E poi, come sai queste informazioni? Io ho consultato decine di medici e nessuno ha saputo darmi una spiegazione o definizione."

"Quando è stata l'ultima volta che ha provato a chiedere?" domandò Connor.

Hank si fermò.
"Molti anni fa."

"Ecco. La scoperta è piuttosto recente, di due anni fa per l'esattezza," spiegò.

Hank scosse la testa. Anni alla ricerca di una risposta ed eccola lì, spiattellata da un androide. Doveva ammettere, però, che erano anni che non aveva più cercato informazioni in merito al suo tatuaggio.

"Quindi... che altro sai su questa cosa?"

Connor scosse la testa.

"Non molto," tagliò corto, "però forse il suo non è mai stato un conto alla rovescia di morte, magari rappresenta qualcos altro," provò a dire e Hank grugnì, spazientito.

"E cosa? Non è successo praticamente niente degno di nota nel momento in cui sono scattati gli zeri."

"Magari ancora non lo sa," rispose Connor, enigmatico.

Il silenzio calò tra di loro e Hank sottrasse il braccio dal tocco dell'androide, come se fosse stato improvvisamente bruciato dalle sue dita. Si abbassò la manica, tornando a coprire quella che ormai poteva essere soltanto una cicatrice, qualcosa che aveva creato dei traumi e che comunque non aveva trovato una risposta. Troppi anni ad arrovellarsi per qualcosa che non aveva avuto senso.

"Comunque, per quanto ne sappiamo, potrebbe ancora verificarsi ciò che deve. In fondo potrebbe non essere preciso al minuto."

Hank valutò le parole di Connor. Non aveva torto, in fondo non poteva sapere se sua moglie fosse morta esattamente nell'istante in cui erano scattati gli zeri. Serrò le labbra, rimettendo le mani sul volante.

"Non parliamone più, va bene?" chiese. "E scendi dalla mia macchina," sussurrò a voce bassa, senza guardarlo. Connor fece per protestare, ma poi non disse niente, rimase semplicemente lì.

"Ho questo dubbio che..." Hank rivolse il suo sguardo verso l'androide, di nuovo.

E se fosse stato davvero lui, il motivo del suo conto alla rovescia?

In che modo un androide poteva essere così importante nella sua vita?
Più importante di sua moglie, più importante di Cole, più importante della loro morte o addirittura della propria?

Non poteva crederci.
Forse, però, allontanarlo sarebbe stato un errore?

Connor afferrò la maniglia della macchina.

"No," intervenne Hank, appoggiando di nuovo la fronte sul voltante, "No... non andare. Rimani qui," sussurrò, piano. Connor riuscì a sentirlo e mise le mani sulle proprie ginocchia, acquisendo di nuovo una postura ordinata e dritta.

"Non andare..." ripeté, chiudendo gli occhi. Le lacrime uscirono improvvisamente, senza dargli la possibilità di fermarsi. Connor non fece niente. Rimase lì seduto a guardarlo e Hank sperava vivamente che non muovesse un muscolo.

Aveva sperato di concludere l'agonia della sua vita e invece non solo era stata prolungata, ma gli sembrava di aver bruciato così tante cose nell'attesa di uno scadere del tempo che non era mai arrivato. Probabilmente aveva ancora chissà quanti anni da vivere e nessuna voglia di farlo, ma neanche abbastanza forza per ammazzarsi.

In quel momento voleva soltanto dormire e voleva che Connor se ne andasse, ma al tempo stesso non voleva davvero che uscisse dall'auto, perché aveva bisogno di una ragione, di un motivo per cui la sua vita si era trasformata in una storia così paradossale.

Aveva bisogno di una ragione per continuare a combattere, perché se la vita aveva davvero deciso di continuare a scorrere nella sua persona, allora l'unica cosa che poteva fare era dargli tutte le ragioni del mondo per farlo e per non partire con la sua auto e schiantarsi contro il primo muro disponibile.

Forse non doveva sprecare quella seconda opportunità che il destino o chi per lui gli aveva dato, forse doveva farlo per Allison, forse doveva farlo per Cole, o magari, in modo totalmente folle e paradossale, doveva farlo per Connor, perché forse era lui, il suo countdown.





 

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