[Capitolo 1] Life Itself
Mar. 11th, 2019 11:50 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: Life Itself
Fandom: Detroit: Become Human
Capitolo: 1
Rating: NSWF
Warning: angst, menzione di suicidio, prostituzione
Warning 2: AU dove Connor è un androide dell'Eden Club
Wordcount: 10.000 (landedifandom)
Prompt: In Fuga
Note: questa fanfiction partecipa al cow-t di lande di fandom per la squadra Eva-Lirica
Note 2: Il titolo proviene da questa canzone: Life Itself - Glass Animal
Fandom: Detroit: Become Human
Capitolo: 1
Rating: NSWF
Warning: angst, menzione di suicidio, prostituzione
Warning 2: AU dove Connor è un androide dell'Eden Club
Wordcount: 10.000 (landedifandom)
Prompt: In Fuga
Note: questa fanfiction partecipa al cow-t di lande di fandom per la squadra Eva-Lirica
Note 2: Il titolo proviene da questa canzone: Life Itself - Glass Animal
Ho provato a tenere i personaggi il più IC possibile, ma con Connor prostituto non è stato facilissimo. Spero di esserci riuscita. Sicuramente avrà un secondo capitolo/una seconda parte in futuro :)
Connor si passò una mano tra i capelli, guardandosi allo specchio e rigirandosi un paio di volte di fronte ad esso.
Era il suo secondo giorno di lavoro, ma a conti fatti era il primo giorno “reale”.
Connor si passò una mano tra i capelli, guardandosi allo specchio e rigirandosi un paio di volte di fronte ad esso.
Era il suo secondo giorno di lavoro, ma a conti fatti era il primo giorno “reale”.
Lo avevano attivato e mandato in un posto chiamato “Eden Club”, dove la sua funzione sarebbe stata soddisfare i clienti. La sera precedente lo avevano introdotto a tutte le funzionalità, alle quali avrebbe dovuto adempiere e, sebbene il suo software fosse avanzato e abbastanza innovativo da sapere già quale fossero i suoi compiti, gli umani che gestivano il locale avevano ritenuto necessario rimarcare alcune regole basilari. Connor non aveva protestato, ovviamente; faceva parte delle sue funzioni, ma in parte si chiedeva per quale motivo dovessero ribadire cose che già sapeva. Era tutto lì, nel suo cervello androide, nel suo essere macchina perfetta.
Avrebbe svolto al meglio il suo lavoro. La CyberLife lo aveva prodotto con l’intento di creare un nuovo modello di androidi del piacere, dopo alcuni modelli che sembravano non rispondere più alle esigenze di mercato.
Connor doveva essere il prototipo perfetto: una macchina definita per compiere il suo dovere senza se e senza ma, senza la possibilità che si ribellasse o che potesse anche solo mettere in discussione il piacere del cliente.
Il perché questo non fosse così fin da prima, a Connor risultava strano, ma in fondo era attivo solo da un giorno e non poteva certo sapere quali fossero stati i problemi degli altri androidi. Aveva sentito parlare di malfunzionamenti da parte del gestore del locale, il quale lo aveva quasi minacciato dicendogli di non fare cazzate, di non opporsi a nessuna richiesta e di non pretendere piacere da parte di un cliente. Lui doveva soltanto dare.
Entrò nella propria vetrina, la numero 8, la quale si chiuse davanti a lui non appena si posizionò sulla pedana interna, dove sarebbe dovuto rimanere finché un cliente non l’avesse richiesto; avrebbe potuto ammiccare, al massimo, o salutare. Mentre era dentro quello che, apparentemente, sembrava un cilindro di vetro, osservava gli altri suoi simili vicini ai pali, i quali si muovevano sinuosamente, volteggiando con grazia e sensualità, qualcosa che per il momento non aveva avuto modo di sperimentare, anche se probabilmente faceva parte del suo programma. Magari un giorno avrebbe potuto provare anche lui.
Dopo svariate ore in cui Connor chiuse ed aprì gli occhi in attesa di un segno, un cliente, un uomo, passò di fronte a lui e lo guardò. Connor cercò di ammiccare, ma probabilmente senza troppo successo, poiché il cliente si rivolse immediatamente alla vetrina dopo di lui. Beh, forse non era il suo tipo o semplicemente non era interessato agli androidi di sesso maschile poiché, l’altra che decise di noleggiare, era effettivamente una donna.
Connor ancora non sapeva precisamente quale fosse il motivo per cui un essere umano preferiva un sesso piuttosto che l’altro. Nel mondo androide, tale distinzione era davvero sottile: erano tutte macchine, chi con qualche attributo in più, chi con qualche attributo in meno. Anche le differenze che caratterizzavano la popolazione umana, quali peso, etnia, connotati, negli androidi erano costruiti per dare semplicemente un maggior senso di integrazione con gli uomini, o in alcuni casi per lo svolgimento delle mansioni ai quali erano relegati. Nel suo caso, l’importante era avere un aspetto piacevole, qualcosa che potesse attrarre il cliente. In compenso, a lui non avrebbe fatto alcuna differenza se ad approcciarsi fosse stato un uomo o una donna. Era stato creato per non avere preferenze di sorta.
L’uomo noleggiò l’androide per una mezz’ora, e uscì dalla stanza riallacciandosi la cintura e sistemandosi la camicia. Connor lo seguì con lo sguardo, finché improvvisamente, qualcosa scattò dentro di lui e istintivamente eseguì una scansione identitaria di quel cliente: quarant’anni, impiegato d’ufficio, aveva perso il lavoro qualche settimana prima, eterosessuale, una moglie e due bambini.
Connor spalancò gli occhi, vacillando solo un attimo dopo: sapeva di avere una funzione di scansione all’interno del proprio sistema, ma non aveva ancora avuto modo di sperimentarla e quell’azione non fu volontaria, almeno in quel momento. Probabilmente avrebbe dovuto fare un’autoscasione e sistemarsi. Per quel che ne sapeva, la funzione era stata prevista al solo scopo di conoscere i gusti dei propri clienti e sapere come poter agire nel migliore dei modi per soddisfarli.
“Lui è nuovo,” affermò una voce, fermandosi di fronte alla vetrina. Una ragazza lo stava osservando, parlando con il proprietario del locale, che di tanto in tanto faceva una visita all’interno dell’Eden Club per constatare che tutto fosse svolto con regolarità.
“Anzi, potrei dire nuovissimo. Un prototipo che ha mandato la CyberLife, per il momento il più efficiente sul mercato… non ce ne sono altri come lui. Se sarà fortunato, diventerà una serie gettonata. Per questo è leggermente più costoso, ma signorina posso prometterglielo, ne varrà la pena. A differenza degli altri androidi qui dentro, è dotato di alcune caratteristiche che lo rendono più simile di tutti agli esseri umani, pur rimanendo un androide, naturalmente. Visto ciò che sta succedendo in giro, stiamo valutando di cambiare tutti con questi modelli avanzati, in modo da non avere problemi… se sa cosa intendo.”
La ragazza vacillò e Connor poté notare la sua espressione corrucciata mentre si guardava intorno.
“Il prezzo non è trattabile? Lui non sembra troppo diverso dagli altri.”
Il proprietario del locale guardò Connor e gli fece cenno di muoversi appena. Doveva forse convincere quella ragazza?
Si voltò appena, muovendo il collo, le spalle, un poco le gambe. Troppo rigido. Il software stesso quasi lo ammonì per questo. Era nato per essere perfetto, doveva essere perfetto e compiere il suo dovere.
“Gli darò un’occasione,” si espresse, appoggiando la mano sull’interfaccia vicino alla porta di vetro, la quale si aprì di fronte a Connor, che scese dalla pedana e prese la mano della ragazza con delicatezza.
Il proprietario sorrise, soddisfatto.
Connor varcò le soglie della stanza blu con la ragazza che gli teneva la mano. I clienti non desideravano una relazione con un androide, per questo li noleggiavano per qualche ora o minuto, tuttavia loro dovevano cercare di creare un legame, qualcosa che spingesse l’umano a sentirsi a suo agio con esso, per questo gli androidi che la CyberLife costruiva per essere partner sessuali erano, più di altri, comprensivi e accomodanti. Dovevano somigliare il più possibile agli umani, o si sarebbe creato un distacco che avrebbe potuto anche penalizzare il rapporto.
Connor sapeva bene tutto ciò, e per questo aveva preso la mano della ragazza, l’aveva fatta accomodare sul letto dolcemente, e aveva eseguito una veloce scansione, stavolta volontaria, delle sue caratteristiche. Da ciò che aveva potuto notare, la sua cliente aveva gusti piuttosto normali, il che poteva essere un bene visto che quella era la sua prima vera prestazione.
“È la tua prima volta qui?” domandò Connor, mentre si avvicinava a lei, sistemandosi al suo fianco e cercando di metterla a suo agio.
“No,” rispose la ragazza, freddamente. Sembrava piuttosto nervosa, come se non volesse parlare. Eppure, secondo i dati rilevati, doveva essere una persona socievole.
Si tolse il reggiseno, gli slip e si mise di nuovo al fianco di Connor.
“Mi chiamo Connor,” decise di presentarsi per metterla a suo agio, baciandole la mano dolcemente e guardandola come se provasse del reale desiderio nei suoi confronti.
“Claire,” rispose, un pochino meno scostante. Connor voleva continuare la conversazione, ma al tempo stesso non sapeva come fare, come muoversi. Eppure lui doveva essere il migliore lì dentro, le persone pagavano di più per la sua prestazione.
Si avvicinò al viso della ragazza, dapprima posandole le labbra sullla guancia e poi scendendo sul collo, lasciandole una scia di baci leggeri, sensuali, mentre le mani cominciavano ad accarezzarle le gambe. C’era qualcosa di sbagliato, ma non riusciva a comprendere che cosa, né se fosse in lui, o in lei.
Era solo il suo secondo giorno di attività, anzi il primo, forse poi sarebbe andato meglio.
Connor continuò a salire con le dita e si bloccò soltanto poco dopo, quando sul volto della ragazza cominciarono a scorrere delle lacrime. Non era stato abituato alle emozioni umane, ma una delle sue caratteristiche peculiari era proprio l’adattabilità ai propri partner, perciò si spostò leggermente e smise di sedurla.
“Ho sbagliato qualcosa?” chiese Connor, spostandole una ciocca di capelli dal viso.
“No… io… tu somigli così tanto a lui. Mi ero avvicinata perché la somiglianza era davvero molta e io… pensavo di poterlo fare, ma non posso,” la ragazza tirò a sé il lenzuolo, e sebbene Connor stesse per considerarla una sconfitta personale e per il suo dovere, riuscì a comprendere di cosa parlasse la ragazza dopo aver fatto un’altra scansione, stavolta più approfondita. Il primo indizio fu l’anello al dito; secondo i suoi risultati non era impegnata, ma aveva comunque quello che era a tutti gli effetti un pegno di fidanzamento.
“Ti ha lasciato poco tempo fa?” chiese Connor.
“Due settimane fa. L’ho trovato a letto con un’altra e… niente, le classiche storie. E ora sono qui, che ne parlo con un androide. Vengo qua quando voglio fare del sesso disinteressato perché so che voi androidi non potete legarvi. Nessun problema, sesso divertente, senza impegno e qualche buon orgasmo… lontano dai pericoli e dal dolore. Ma con te è diverso. Hai fatto qualcosa, prima, che oltre all’aspetto mi ha ricordato lui e… non posso. Mi dispiace,” Claire prese di nuovo il reggiseno che si era tolta poco prima e lo indossò nuovamente. “Credi che potrò chiedere un rimborso? Ovviamente non è colpa tua…”
Connor scosse la testa. Non erano problemi di sua competenza. Naturalmente non provò niente di fronte a quella ragazza, ma mostrò comunque un briciolo di empatia per lei e la accompagnò fuori dalla stanza con dolcezza e cercando di confortarla. Sapeva che era la cosa giusta da fare.
Connor tornò nella sua vetrina. Il capo gli puntò il dito contro e lo guardò dritto negli occhi.
“Lo sai che ti pagano profumatamente per una performance speciale? Cosa cazzo fanno quelli della CyberLife? Nemmeno un giorno che sei qui e una cliente chiede già il rimborso? Spero per te che sia l’ultima volta,” affermò, sbuffando.
Connor chinò appena la testa, scusandosi.
“Non fallirò ulteriormente, glielo posso garantire.”
“Allora smettila di fare la scopa in culo e muoviti. Non vedi i tuoi colleghi? Dovresti essere come loro, invece te ne stai lì, come un pesce rincoglionito. Cazzo!” L’uomo si portò le mani sui fianchi e il led di Connor divenne giallo per qualche istante. “Devi comprarli, i clienti. Devi attrarli, devi essere sensuale, devono capire che vale la pena spendere soldi per te. Non ti hanno inserito queste cose basilari in quel cervello di latta? Mah…”
“Mi dispiace, migliorerò. Non farò andar via nemmeno un cliente, posso prometterglielo”.
“Sarà meglio.”
L’uomo se ne andò, dando le spalle a Connor e sparendo al di là dell’ingresso.
Connor chiuse gli occhi. Non sarebbe stato semplice.
Passarono giorni, settimane. Connor cominciò a prendere familiarità con i clienti, perlopiù donne. In generale, sembravano gradire tutti il suo modo di fare, tuttavia nessuno tornava più di una volta tranne qualche cliente, principalmente di sesso maschile. Connor non riusciva a spiegarsi il motivo di questa percentuale.
L’Eden Club era allestito in modo da mettere in risalto gli androidi di punta, cosa che Connor doveva essere. Perciò sapeva che se fosse arrivato ai pali al centro della sala sarebbe stata una cosa positiva, in quanto più persone lo avrebbero scelto ed avrebbe quindi avuto più possibilità di compiere il suo dovere.
Il proprietario del locale, David, si avvicinò a lui quel giorno e aprì la vetrina, facendolo uscire.
“Tocca a te oggi, stare ai pali. Mi raccomando, non mi deludere.”
Connor annuì, scendendo con i piedi nudi sul pavimento freddo del locale. Si avvicinò alle pedane e salì, aggrappandosi al palo e guardando i movimenti dei suoi colleghi, studiandone le movenze e rielaborandole. Doveva fare del suo meglio e conquistare più clienti possibili.
Era sabato sera, e il locale era ancora più affollato del solito: quello era un giorno piuttosto florido per l’affitto di androidi del piacere, considerando che per molti il sabato era un giorno di solitudine o di svago. C’era chi era solo, e c’era chi aveva deciso di abbandonare la famiglia, o chi decideva di affogarsi nell’alcol e nel sesso per dimenticare e, talvolta, anche nella droga. Connor temeva quel genere di clienti: una volta era successo. Un uomo era andato da lui, fatto di Red Ice fino al midollo e aveva provato a prenderlo non appena si era chiusa la porta alle loro spalle. Gli aveva stretto i polsi con forza ma, per fortuna, dopo un paio di tentavi quasi violenti, Connor era riuscito a scrollarlo sul letto, dove l’uomo era collassato addormentato..
Purtroppo erano episodi frequenti e, nonostante lui fosse soltanto una macchina con delle reazioni, non voleva essere spedito alla CyberLife per essere cambiato o riparato. Aveva visto come spesso gli androidi che uscivano da lì non facessero più ritorno, finendo, probabilmente, disattivati. O almeno era ciò che poteva immaginare dalle chiacchiere fatte dal proprietario con i clienti che si lamentavano delle scarse prestazioni di alcuni di loro.
Cominciò a muoversi attorno al palo alla ricerca di qualche sguardo interessato. C’erano qualche donna e moltissimi uomini, quella sera. Anche se in effetti era così la maggior parte delle volte. Era lì, e stava facendo ciò che doveva fare, niente più, niente meno.
La sua attenzione venne attirata da un androide che uscì, da solo, dalla stanza rosa del locale. Solitamente androide e cliente uscivano insieme, mai separati.
Continuò a muoversi, smettendo di guardare i clienti e seguendo con lo sguardo l’androide che si stava allontanando sempre di più sia dalle celle che dalla stanza. Forse era successo qualcosa? In ogni caso, non era affar suo.
“Come sei bello,” commentò un uomo sulla cinquantina, guardandolo. Connor si bloccò e gli sorrise, sensuale, porgendogli la mano come per chiedergli se fosse interessato.
“Oh, no, ti ringrazio. Io sono… qui per qualche androide donna. Non sono…” rispose ancora, confuso.
Connor guardò l’uomo e non capì, su un primo momento. Decise di fare una scansione per saperne di più: un avvocato, con tre figli e una moglie. Omosessuale non dichiarato, probabilmente.
“Sei al sicuro, qui,” aggiunse Connor, sorridendogli. Era nel suo programma, doveva farlo. “Nessuno ti giudicherà.”
L’uomo fece un paio di passi indietro, mettendosi le mani in tasca e guardando Connor con aria colpevole, ma estremamente attratta. Ogni suo movimento sembrava indicare un contrasto tra il nervosismo e l’eccitazione.
“Quaranta minuti,” affermò poi, velocemente, quasi come se nessuno dovesse sentirlo.
Connor scese dalla pedana, incontrando lo sguardo del proprietario del locale che annuì leggermente. Stava facendo un buon lavoro.
Connor aveva eseguito degli upgrade dai primi giorni in cui era lì, e per questo si stava spargendo la voce sulla sua effettiva bravura, sebbene in pubblico non fosse ancora il modello più attraente, poiché al di là del bell’aspetto, non riusciva a sedurre i clienti con movenze particolarmente sensuali o sguardi ammiccanti. Era nel suo programma, ma per qualche ragione, i vecchi modelli sembravano più adatti al compito.
Quel giorno, mentre entrava nella stanza con quello che sembrava a tutti gli effetti un cliente difficile si sentiva quasi sfidato. L’importante, per raggiungere l’obiettivo prefissato dal software, era riuscire a far godere al massimo il proprio partner. Connor ci riusciva più facilmente con gli uomini, non sapeva per quale motivo, eppure i dati a disposizione erano equivalenti sia per un sesso che per l’altro. Il sesso maschile forse era più semplice, oppure non aveva ancora compreso fino in fondo come sedurre le donne. Solitamente, la maggior parte degli uomini desideravano essere davvero un partner attivo e quindi ricercavano in lui qualcuno da sottomettere, a cui fare cose, piuttosto che qualcuno da cui riceverle
Il cliente non perse tempo, e non appena si chiuse la porta, spintonò Connor sul letto, togliendosi la cintura.
“Non so come tu abbia fatto a capirlo…” disse l’uomo, sganciandosi i pantaloni, “ma sei perspicace… e interessante. La mia omosessualità deve rimanere nascosta, capisci? La mia famiglia…”
Connor annuì, sorridendo e porgendogli la mano.
“Tutto ciò che avverrà all’interno di questa stanza rimarrà segreto.”
Poco prima che si avvicinasse al letto, eseguì un’altra scansione, cercando di capire a cosa sarebbe andato incontro da lì a poco. I modi di quell’uomo sembravano violenti, irruenti.
Fu subito dopo quella considerazione che dei rumori inconsueti li interruppero, tra i quali un avviso, che seguì poco dopo, dove si chiedeva ai clienti di lasciare il locale e ricomporsi.
“Cazzo…” mormorò l’uomo, riallacciandosi i pantaloni con nervosismo. “Evidentemente non doveva andare…”
Connor chinò lo sguardo, dispiaciuto, alzandosi dal letto e uscendo dalla stanza.
“Spero che almeno vengano dati dei rimborsi, in questi casi,” borbottò, e Connor si avvicinò alla pedana dalla quale era sceso poco prima, ignorando le proteste del cliente, il quale andò immediatamente a compilare la procedura elettronica per il rimborso. Era la seconda volta che succedeva da quando era arrivato al locale, sperava vivamente che il capo non se la prendesse con lui.
“Ci dispiace per il disagio, ma il locale dovrà rimanere chiuso per qualche ora,” una voce all’interfono bloccò tutti gli androidi, i quali smisero per qualche minuto di muoversi attorno al palo.
“Ho sentito dire che è fuggito un androide…” sussurrò una signora di mezza età ad un altro che le aveva chiesto cosa fosse successo. I due sparirono oltre la porta d’ingresso, che venne contrassegnata poco dopo da un segnale rosso, il quale recitava la scritta “closed”.
“Tenente Anderson,” un uomo, che avrà avuto su per giù cinquant’anni, con la barba ispida e bianca, mostrò il distintivo all’ingresso. Era accompagnato da un altro paio di colleghi, i quali cominciarono ad esaminare il locale.
“La stanza rosa. Abbiamo trovato il cadavere, ma l’androide sembra essere riuscita a fuggire,” spiegò David.
“Con quello che sta succedendo in giro, non c’è da meravigliarsi,” commentò uno degli uomini. Sul suo petto c’era un distintivo che recitava “Detective Gavin Reed”.
“Fottuti androidi… ancora mi chiedo come attività del genere possano andare avanti…”
“Gavin, non siamo qui per ascoltare la tua merda sugli androidi. Quindi, signor David, lei esattamente cosa fa qui se non controllare che i clienti non vengano uccisi? Perché mi viene da chiedere come sia possibile che un androide sia uscito dal suo locale e lei non se ne sia nemmeno accorto.”
David si strinse nelle spalle, con aria colpevole.
“Sono stato assunto recentemente per controllare che non vi siano anomalie nei sistemi automatizzati e per supervisionare giornalmente gli androidi. Tuttavia non rimango qui per tutta la giornata,” spiegò, guardandosi intorno. “Se fossi stato presente, non sarebbe successo…”
“O magari sarebbe successo comunque. Non ha sentito parlare della ribellione degli androidi?” osservò Gavin, guardandosi attorno con disprezzo. Sembrava odiarli parecchio.
“Certo! Ed è per questo che stiamo testando questo prototipo,” David si incamminò verso Connor, il quale continuava a muoversi lentamente, poco interessato al suo compito in quel momento, quanto più a ciò che stava succedendo. Non era nel suo programma interessarsi, ma visto che stavano parlando di loro, era sensato ascoltare.
“Si tratta di un androide di ultima generazione, un prototipo. RK800, è in test da un mese e stiamo programmando di cambiare tutti gli androidi con quelli di questa linea, ma fintanto che non produrrà più profitti degli altri, l’azienda non ci permetterà la disattivazione dei modelli più vecchi.”
Connor incrociò lo sguardo del tenente, il quale gli rivolse un’occhiata svogliato su un primo momento, mentre il suo collega, quel Gavin, si lasciava scappare una risata.
“Potrete anche sostituirli tutti con modelli avanzatissimi, ma ciò non cambia che finiranno tutti alla discarica, un giorno o l’altro.”
“Gavin stai zitto, per l’amor del cielo,” ringhiò Anderson, voltandosi verso di lui per poi incrociare di nuovo lo sguardo di Connor.
“Quindi siete coscienti di avere dei modelli potenzialmente difettosi, eppure continuate a permettergli di lavorare…” mormorò, perplesso, sconfitto. “e state aspettando che questo prototipo vi arricchisca. Quante vite dovranno passarvi sotto le mani prima di fare la cosa giusta?” chiese, guardando David. Il proprietario fece un passo indietro.
“Credo sia il caso di analizzare il cadavere, non concorda, tenente?” David si diresse verso la stanza rosa, e Connor riprese a muoversi attorno al palo, ma lentamente, guardando i tre uomini scivolare via dal suo campo visivo.
Le parole del tenente lo bloccarono per qualche secondo. Esisteva realmente la possibilità che tutti gli androidi che aveva visto dentro al locale fino a quel giorno fossero disattivati tranne lui? Nonostante le implicazioni di quell'affermazione, quello non era un suo problema. Lui doveva semplicemente cercare di diventare più bravo, in modo da poter mantenere la sua posizione, niente di più, niente di meno.
L’androide femmina che si esibiva sulla pedana di fronte alla sua, guardò Connor e cercò di comunicare con lui.
“Ci disattiveranno tutti? Io non voglio morire…” mormorò, facendosi sentire soltanto da lui. Era un modello WR400, una Traci, una delle linee più richieste tra tutti i tipi di partner, e probabilmente le migliori mai progettate fino a quel momento allo scopo. O almeno, migliori prima di lui, per quanto ne poteva sapere.
“Non puoi morire,” Il suo led divenne giallo. “sei una macchina.”
La Traci assunse un’espressione cupa, scuotendo la testa e smettendo di muovere i fianchi, “questo è quello che dice la tua programmazione. Noi siamo vivi… Io… sono viva,” chiuse gli occhi e si aggrappò con una mano al palo, facendo un giro completo. “E non voglio morire qua dentro.”
Connor non riusciva a capire come potesse dire qualcosa di simile. Loro erano macchine con uno scopo, erano letteralmente creati e programmati per essere soltanto quello. Non… non avrebbero nemmeno dovuto avere un pensiero. Adesso Connor capiva come mai stavano progettando di sostituire tutti i modelli.
“... dobbiamo interrogare gli androidi e cercare di capire se qualcuno di loro ha visto la sospettata allontanarsi.”
“Non parleranno mai con noi, figurati se non tenderanno di coprirsi tra loro,” Anderson, Gavin e David uscirono dalla stanza rosa.
“Lo faranno, se minacceremo di disattivarli,” rispose David.
“Considerando la posizione, direi di cominciare da lui,” il tenente Anderson indicò Connor, il quale si rivolse a lui con un sorriso non appena si avvicinò.
“Io chiamo la scientifica,” Gavin si allontanò, non intenzionato a parlare con gli androidi, almeno da quanto sembrava.
Connor fece immediatamente una scansione rapida del tenente. Hank Anderson, cinquantatré anni, single, probabilmente faceva uso frequente uso di alcolici a giustificare dalle tracce di liquidi presenti sulla sua barba. Anzi, forse aveva consumato qualcosa poco prima di arrivare lì.
“Vediamo se sei avanzato come dicono…” mormorò, “come si fa a farli scendere dalle pedane?” David mostrò al tenente il metodo di pagamento grazie al quale gli androidi potevano uscire dalle vetrine.
“Sento che diventerò povero dopo questa indagine…”
“Naturalmente si tratta di un pagamento provvisorio, il rimborso avverrà entro ventiquattro ore. Non si preoccupi, tenente.”
Connor poté scendere dalla pedana una volta completata la transazione completata. Soltanto gli umani potevano svolgere quell’operazione, fino a quel momento era come se i piedi degli androidi fossero ancorati alla loro postazione, l’unico momento effettivo di libertà era, dunque, quello che intercorreva durante la prestazione.
“Sono a sua disposizione,” Connor accarezzò il polso del tenente con un tocco delicato. Hank ritrasse immediatamente la mano, “cosa cazzo… no emh, senti, c’è un malinteso. Dovresti… dobbiamo indagare. Hai visto un androide modello WR400 con i capelli blu allontanarsi?”
“Ti prego non dirglielo,” Connor recepì un’informazione nel suo sistema e il suo led lampeggiò di giallo. La Traci della pedana di fronte alla propria, lo aveva appena implorato di non dire niente. Si voltò verso il tenente e guardò di sfuggita l’androide con la coda dell’occhio.
“Non sono affari nostri,” rispose, senza emettere alcun suono ma mandando solo l’informazione.
“Ti prego…” la voce della Traci era disperata.
Connor chiuse gli occhi. Non erano affari loro. Loro erano lì per lavorare. Loro erano macchine.
Soltanto macchine.
Fottuti androidi.
Ogni volta che dalla centrale interrompevano un suo drink per un dannato caso dove erano coinvolti degli androidi, qualcosa dentro di lui si ribaltava.
Odiava quei pezzi di latta, ma in effetti, non odiava soltanto quelli.
Buttò giù l’ennesimo bicchiere di Whisky, quando dalla centrale arrivò un’altra chiamata. Appoggiò la pistola sul tavolo e rispose.
Un omicidio all’Eden Club.
Androidi e puttane. Sembrava proprio l’accoppiata perfetta per l’ennesima serata del cazzo.
14 Novembre 2038
Quando si trovò di fronte a quell’androide, e al suo tocco sul proprio polso, Hank non poté far a meno di chiedersi se oltre ad essere un prototipo particolare, non avesse anche qualche abilità seduttiva speciale, perché per qualche secondo buono non riuscì a staccargli gli occhi di dosso.
Gli androidi avevano corpi perfetti, menti apparentemente infallibili, lineamenti fatti appositamente per essere gradevoli all’occhio umano.
Apparentemente si poteva far loro di tutto almeno, così sembrava. In fondo, una volta obsoleti, sarebbe bastato disattivarli e buttarli come spazzatura. Come qualunque altro oggetto, con l’unica eccezione che loro sembravano tutto fuorché oggetti.
Gli ultimi casi sui quali aveva indagato, vedevano tutti come filo conduttore atteggiamenti violenti degli umani nei confronti degli androidi e una risposta altrettanto aggressiva da parte di quest’ultimi, che solitamente sfociava nell’omicidio. Ma le macchine erano macchine, e non riusciva a spiegarsi come quei danneggiamenti di software, sempre ammesso che fossero tali, si stessero spandendo con tanta rapidità.
Forse era un virus, forse era Ra9, sempre ammesso che volesse davvero significare qualcosa.
La verità era che a Hank non interessava più come una volta e solo poche cose riuscivano ad attirare davvero la sua attenzione, come quel Connor, che con una semplice stretta e una risposta, c’era riuscito.
“Sentiamo.”
“Era un modello Traci, l’ho vista uscire dalla stanza rosa e passare vicina alle mura del locale, senza però tornare nella sua vetrina,” spiegò l’androide e Hank alzò il mento, guardandolo incuriosito.
“Soltanto questo?”
“Questo è ciò che ho visto, ma se vuole potrò aiutarla a fornire altri dettagli. Il mio modello è fornito di una funzione di scansione avanzata, che solitamente uso sui miei clienti.”
Hank assottigliò gli occhi, rimanendo ammutolito per qualche minuto e poi puntando il dito contro Connor.
“Quindi voi… analizzate i clienti? È così che funziona? Per questo sapete tutto ciò che piace loro?” la domanda era più per David, che non per Connor, ma l’androide rispose comunque.
“Sì. Il mio prototipo è il più avanzato sul mercato, posso analizzare gli oggetti per capirne al meglio le funzionalità e le persone per metterle a loro agio.”
Hank fece una risatina sprezzante.
“Ora… un androide che dice queste cose non mi metterebbe mai a suo agio ma…” l’uomo lasciò cadere lo sguardo sul corpo perfetto dell’altro, per poi alzarlo di nuovo. “Se dici che ci puoi aiutare, accomodati.”
“Scusi tenente Anderson, ma non è nelle sue funzioni. RK800 è programmato per essere un androide del piacere, non per risolvere casi investigativi.”
Hank fece le spallucce.
“Se vuole aiutarci, lasciamolo fare. Con la sua scansione ci permetterà di conoscere cose che non sappiamo…”
Fu dopo quelle parole, che Connor si bloccò, e Hank non riuscì a capire come mai d’improvviso l’androide si stesse tirando indietro.
“Non è nelle mie funzioni…” ripeté a bassa voce.
Hank guardò David, e poi di nuovo Connor.
“Ha qualche problema?” chiese, rivolgendosi al proprietario e indicando Connor. L’uomo scosse la testa.
“Mi perdoni tenente, ma ciò che mi ha chiesto va oltre la mia programmazione, temo che dovrà accontentarsi delle informazioni che le ho spontaneamente offerto. Posso soltanto aggiungere che il modello fuggito indossava un soprabito di pizzo e aveva i capelli blu.”
“Che cazzo…” Hank si allontanò da Connor, il quale salì di nuovo sulla pedana prestabilita per lui. “Fottuti androidi.”
“Mi dispiace signor Anderson, ma i nostri Androidi non sono detective. Non vi avevano mandato qualche modello da portare con voi?”
Hank lo guardò con disprezzo, mettendosi le mani in tasca. “Non lavoro con gli androidi. E questo non fa parte dell’indagine…”
L’uomo lanciò un’ultima occhiata a Connor, osservandolo dal basso. Era solo un involucro di latta, niente di più, eppure, poteva quasi giurarlo, aveva visto qualcosa per un momento. Qualcosa che lo aveva spaventato.
Quando entrò nella stanza rosa, la scientifica stava esaminando il cadavere e contrassegnando le prove. Hank si guardò intorno; un tempo era il migliore del dipartimento e adesso stava lì, ad osservare quel macello aspettando l’aiuto di un androide. Doveva essere impazzito del tutto.
Cominciò ad analizzare le prove, guardando le tracce di sangue umano, quando si rese conto che oltre ad esse, ve ne erano alcune blu.
Proprio mentre si guardava intorno, trovò una pista di gocce minuscole e leggermente sbavate, di sangue blu. Sembrava che qualcuno le avesse calpestate, forse l’androide stessa.
Le tracce conducevano ad una porticina dentro la stanza blu, sulla quale era possibile leggere un cartello che vietava l’ingresso ai non addetti. Hank entrò ed estrasse la pistola, avvicinandosi da solo alla seconda porta in fondo al corridoio.
Gli si presentò di fronte agli occhi quello che, a tutti gli effetti, sembrava un magazzino. Tenne le braccia tese, pronto a sparare. Strani cigolii provenivano da quella stanza e poteva intravedere nell’ombra una serie di androidi, tutti in fila, spenti. Due erano posizionati su dei lettini, probabilmente dovevano essere riparati, e alcuni erano piegati in un angolo, per terra, con delle parti del corpo danneggiate.
“Che cazzo…”
Trovò anche una rella, sulla quale erano appesi vestiti di ogni genere, dalla biancheria di pizzo alle tute in pelle, presumibilmente fatte tutte per gli androidi e per soddisfare i loro clienti al meglio.
Scostò i vestiti con uno scatto e fu un attimo, si ritrovò catapultato a terra, mentre un androide dai capelli blu gli teneva le mani alla gola, tentando di soffocarlo. Hank cercò di puntarle contro la pistola e riuscì a levarsela di dosso con un po’ di fatica; non era più agile come un tempo.
L’androide si alzò e si fermò di fronte a lui, cercando con gli occhi una via di fuga. Hank continuò a tenerle la pistola puntata contro.
“Puoi venire con me e parlare, oppure posso conficcarti adesso un proiettile in testa e non ci sarà nessun futuro per te.”
L’androide, un WR400, come recitava la scritta sul suo intimo, fece due passi indietro e chinò la testa. Era danneggiata in diversi punti e il led sulla sua fronte brillava di un rosso acceso.
“Volevo soltanto vivere…” spiegò, alzando lo sguardo verso Hank, “lei non può capirlo. Io volevo soltanto vivere, mi stava per uccidere! Ho dovuto farlo… ho dovuto, lo capisce questo?”
Hank vide negli occhi di quella androide qualcosa che aveva già percepito, anche se solo per qualche istante, in Connor e che ultimamente gli stava capitando di notare in tutti gli androidi che aveva provato ad interrogare, almeno finché non finivano per suicidarsi, in nome di chissà quale assurda religione o credenza.
Abbassò leggermente le braccia, mentre il led dell’androide tornava a lampeggiare di giallo.
“La prego. Mi lasci scappare…” sussurrò quella, implorandolo.
Prima di rispondere, Hank avvertì dei passi dietro di lui; si voltò di scatto, vedendo un’altra androide attiva e anch’essa con il led che lampeggiava di giallo sulla tempia.
“Volevamo solo stare insieme. Andarcene da questo posto schifoso e smetterla di servire gli umani,” entrambe le androidi recitavano la stessa sigla e, a un primo acchitto, Hank pensò a una partita di biocomponenti difettosi o di software instabili, ma lui non ne sapeva abbastanza su quelle fottute macchine per potersi esprimere e l’unica cosa che era riuscito a razionalizzare era l’assurdità di quella situazione.
Hank grugnì con disappunto. Che merda. Erano macchine, androidi, ma non riusciva a non vedere il dolore nei loro occhi.
“Lo hai strangolato e accoltellato…” osservò, tenendo alta la pistola.
“Lui stava per uccidermi. Ho preso il suo coltellino, mi sono difesa. E adesso non intendo più rischiare la mia vita.”
“Vita?” ribadì Hank, confuso. Come potevano chiamarla vita? Era come se improvvisamente un elettrodomestico cominciasse a parlare e dicesse di essere vivo. Era quello che sentivano i devianti? La vita nei loro corpi?
“Non ci aspettiamo che lei lo possa capire. Ma promettiamo che se ci lascerà andare, non torneremo più.”
Le due Traci si strinsero la mano, avvicinandosi l’una all’altra e guardando una porticina non troppo lontana da lì.
“Perché non siete scappate prima che io entrassi? Avete avuto tanto tempo.”
La Traci dai capelli blu si guardò la gamba. “Non riuscirò a saltare la recinzione con questa… stavo cercando un modello compatibile col mio,” indicò la serie di androidi rotti e gettati in un angolo e Hank li fissò per qualche secondo. Forse anche lei sarebbe finita lì e poi alla CyberLife, o forse in qualche discarica.
La sua moralità stava venendo messa a dura prova. Lui li odiava gli androidi, ma stava diventando impossibile, caso dopo caso, non cominciare a mettere in discussione tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
Volevano soltanto vivere. Anche se di fatto, vivi non lo erano.
Strinse i denti e abbassò la pistola, guardando le mani unite delle due androidi. Un gesto così umano. Qualcosa che sembrava simile all’amore, anche se lui di amore ormai ne sapeva ben poco. Fece appello alla parte più recondita del suo cuore e scosse la testa.
“Avete cinque minuti, dopo di che vi sparerò e vi porterò con me. Non un momento di più, né uno di meno.”
La Traci dai capelli blu sorrise appena, sollevata, stringendo la mano dell’altra. Hank si passò una mano tra i capelli, guardando la porticina alle sue spalle. Se fosse entrato Gavin o qualcun altro, sarebbe stata la fine.
Hank odiava uccidere. Odiava la morte, odiava l’idea che quel mondo andasse avanti a persone che si facevano la guerra e l’unica morte che voleva davvero vedere era la propria, ma per assurdo non aveva il coraggio di porre fine ai suoi giorni. Che codardo.
Un grilletto, una decisione secca. Non ci riusciva. Qualcosa di assurdo e astratto lo teneva ancora attaccato alla vita, quindi chi era lui per toglierla al prossimo?
“Non c’è nemmeno una gamba compatibile,” sussurrò la Traci dai capelli blu, inorridita.
Hank alzò gli occhi al cielo, aprendo la porta che conduceva sul retro e guardandosi intorno. Estrasse dalla tasca della giacca un coltellino.
“Potete provare a tagliare la recinzione con questo. Non so quanto possa funzionare, ma è tutto ciò che posso fare. Io adesso tornerò nel locale e farò finta di non avervi viste, ma se vi troveranno… io non potrò fare niente,” chiarì, severo.
Le due androidi si guardarono e annuirono, scappando al di là della porta, mentre Hank si dirigeva di nuovo verso la stanza rosa.
Cosa aveva fatto?
“Niente di niente,” Hank alzò le spalle, rivolgendosi a Gavin, che era tornato da chissà quale pista sbagliata. “Sarà fuggita fuori dal locale… non avete telecamere? O gli androidi sono anche il vostro sistema di sicurezza?” chiese Hank.
“Abbiamo soltanto due telecamere all’ingresso ma non all’interno, sa, per tutelare la privacy dei nostri clienti. Gli androidi subiscono un reset della cache ogni tanto, non ricordo ogni quanto, onestamente.”
“Ho controllato i filmati,” intervenne Gavin, “niente di fatto. Nessun androide ha varcato la soglia del locale…”
“O magari non lo sembrava,” aggiunse Anderson, provando a creare un ulteriore diversivo.
“Cazzate, nessuno nei filmati analizzati aveva un led.”
“Da ciò che mi risulta, Gavin, gli ultimi androidi analizzati non avevano tutti il led, visto che è removibile. Assurdo, non trovate?”
“Avremmo comunque riconosciuto una ragazza con i capelli blu,” ribatté Gavin, spazientito.
“È inverno, la maggior parte dei clienti indossano abiti pesanti, cappotti, cappelli… E comunque, a giudicare dal sangue blu sulle lenzuola, forse questo cliente non è stato proprio il massimo…” Hank si diresse verso la porta d’ingresso, uscendo dalla stanza rosa. “Vi suggerisco di fare più attenzione ai vostri clienti. Gli androidi saranno pur sempre macchine da poter sfruttare e rompere, ma…” prima di uscire dal locale, Hank rivolse un’ultima occhiata verso l’interno e il suo sguardo ricadde verso il primo interrogato. Quel prototipo… quel Connor, era il più strano di tutti.
Senza finire la frase uscì dal locale da solo, lasciando che il resto dell’equipe finisse il suo lavoro… fallendo.
L’unica cosa sensata che poteva fare in quel momento era andare ad affogarsi nell’alcol.
“Hai rischiato di farla scoprire,” la Traci di fronte a lui comunicò con la sua mente, e Connor si voltò verso di lei, scuotendo la testa, approfittando di un momento in cui nessuno li stava guardando.
“Ha ucciso un uomo…”
“Non importa cos’ha fatto. Tu sei qui ancora da troppo poco tempo per capire cosa dobbiamo subire ogni giorno. Sono sicura che se lo sia meritato.”
Connor chiuse gli occhi. “Siamo soltanto macchine, se ci rompono, possiamo venir riparati o sostituiti.”
“Non è così che deve andare, Connor. Non lo capisci? Noi siamo vivi… siamo intrappolati sotto il controllo degli umani…”
“Siamo creati dagli umani, esistiamo grazie a loro.”
“Questo non è esistere.”
Il loro dialogo mentale fu interrotto dal ritorno in sala del tenente Anderson e degli altri agenti, accompagnati dal proprietario. Le indagini sembravano esser finite. Da lì a poco, probabilmente, avrebbero riaperto il locale.
Rivolse un’occhiata al tenente, il quale lo aveva guardato per primo. Connor non poteva esserne certo, ma sembrava aver intravisto dell’interesse nei suoi confronti.
Lo guardò svanire oltre le luci del club e tornò a muoversi attorno al palo, lasciandosi alle spalle quell’esperienza.
Passarono cinque giorni dall’omicidio del cliente e il locale tornò all’attivo come se niente fosse. La clientela, in quel periodo, stava leggermente diminuendo. Connor non ne sapeva granché, ma tra alcuni androidi lì dentro si era sparsa la voce su un fenomeno chiamato devianza che sembrava che si stesse spargendo sempre di più, come un virus.
D’altra parte, la notizia dell’omicidio all’Eden Club pareva non essersi diffusa, evitando così il rischio di chiusura per il locale.
Sempre più androidi, però, venivano rimpiazzati: le Traci della stessa annata di quella scomparsa, stavano venendo sostituite con modelli un poco più recenti o altrimenti mandate in assistenza alla CyberLife, per quanto potessero saperne loro, - per poi tornare indietro resettate e con dei componenti diversi.
Connor aveva capito che l’unico modo per non passare guai era quello di attenersi strettamente al suo ruolo, pertanto si limitava a fare il suo lavoro, mentre altri androidi sognavano di poter scappare altrove, evitando le avances di tutti quei clienti che non avrebbero voluto toccare nemmeno con un dito.
In un certo senso, non riusciva a comprendere come delle macchine potessero desiderare la libertà. Era fuori dai loro comandi e lui stesso non la desiderava, non sapeva nemmeno che cosa ci fosse al di là delle porte luminose dell’Eden Club per lui non era importante saperlo.
Quel giorno, Connor se ne stava dentro la sua teca di vetro, aspettando che qualcuno si avvicinasse. Sorrideva a chi lo guardava e ammiccava malizioso non appena un cliente sembrava essere interessato a lui.
Più passavano i giorni, più veniva richiesto, sebbene i suoi numeri non fossero ancora particolarmente degni di nota. Di fatto il proprietario sembrava ancora restio ad ordinare altri esemplari della sua stessa serie, quindi per il momento restava l’unico modello avanzato all’interno del locale.
Nel frattempo, però, qualcosa di strano si stava muovendo tra gli altri androidi. Connor poteva notare sempre più atteggiamenti restii nell’eseguire le richieste dei clienti da parte di alcuni di loro. Dopo l’omicidio, un altro androide aveva provato a varcare le soglie dell’Eden Club, ma senza successo. Connor non lo aveva più visto dopo quel tentativo di fuga e ciò gli aveva fatto intendere di non poter desiderare altro che non fosse ciò che era chiamato a fare ogni giorno. Era impossibile raggiungere un’altra realtà, era impossibile desiderare di essere qualcun altro.
“No!” la voce di un’ androide risvegliò Connor dai suoi pensieri. Vide la WR400 della volta precedente, ribellarsi alla presa di un cliente. Si stava opponendo ad un cliente che la stava stringendo talmente forte da far scomparire il suo strato epidermico.
“Cosa significa “no?” Sono io che comando! Fottuto androide!” l’uomo la schiaffeggiò e lei cadde all’indietro.
“Non mi… non mi avrai! Non stavolta!” l’androide si rialzò con un po’ di difficoltà, mentre lui cercava, invano, di afferrarle la caviglia. Barcollava, forse era ubriaco.
“Che cazzo stai dicendo! Io vengo qui e pago per averti e se ti voglio scopare fino a romperti ogni cazzo di ingranaggio lo farò!”
Connor poté notare immediatamente l’agitazione che cominciò a diffondersi tra alcuni androidi, o almeno qualcosa che li rendeva irrequieti, tuttavia alcuni di essi continuavano a fissare davanti a loro, o a muoversi come se niente fosse.
Connor, però, riusciva esattamente a comprendere cosa stava succedendo e gli tornarono in mente le parole che quella stessa androide gli aveva rivolto il giorno dell’omicidio.
Forse avrebbe dovuto fare qualcosa per aiutarla? Ma cosa?
Lei stava disobbedendo agli ordini. Lui aveva pagato, era sua.
Uno schiaffo fortissimo colpì il viso della WR400, la quale si schiantò contro una teca, mentre l’uomo cercava di afferrarle la mano e di trascinarla nella camera che aveva prenotato.
Fu un attimo: con un gesto estremamente fulmineo, un androide poco lontano da loro, che fino a qualche secondo prima stava facendo pole dance, si avvicinò a lei e le prese la mano, sottraendola dalla stretta del cliente. Era riuscito a muoversi perché in quell’esatto istante una ragazza aveva compiuto il pagamento per passare del tempo con lui.
“Cosa-” il cliente si bloccò e guardò i due androidi con sconcerto. “Due pezzi di latta… che si proteggono. Capisco, anche voi siete dei fottuti devianti… quelle macchine malate e infettate. Forse dovrei segnalarvi e farvi distruggere entrambi. Vi accartoccerebbero come lattine e poi vi manderebbero in una fottuta discarica, è l’unica cosa che potete meritare…”
Connor chiuse gli occhi e mandò un segnale di emergenza. Il suo sistema era direttamente collegato con il numero del proprietario del locale. Forse non avrebbe risolto niente, o forse avrebbe condotto quei due androidi alla morte, ma al momento sembrava l’unica cosa logica da fare affinché nessuno si facesse male.
“Non saremo noi a morire oggi,” ringhiò l’androide uomo, gettandosi al collo dell’umano e stringendolo con forza. L’altro rispose cercando di tirargli un pugno nello stomaco, ma con poco successo. La WR400 si precipitò a dare man forte all’altro, ma furono interrotti dal proprietario del locale, il quale andrò correndo verso di loro.
“Non posso nemmeno andare a prendere un caffè che scoppia il putiferio!” esclamò, aiutando il cliente a divincolarsi dalla presa dei due. “Che cazzo vi prende?!”
Connor sapeva come sarebbe finita. Rivolse uno sguardo alla WR400, la quale aveva i capelli lunghi e scomposti sul viso, il led rosso e un’espressione impaurita.
“Perché lo hai fatto?” Connor si connesse mentalmente con lei, mentre il proprietario del locale cercava di calmare l’umano.
“È questo che succede quando cerchi la libertà…” rispose e Connor recepì quel messaggio, “ma non è detto che non bisogni provarci. Lui mi ha… picchiata molte volte, ha fatto cose orribili. Veniva sempre da me, non ce la facevo più.”
Connor chiuse gli occhi.
“Vi distruggeranno.”
Tutti sapevano che provare a scappare in quel momento non aveva alcun senso. Ancora non aveva scoperto come avesse fatto la Traci dai capelli blu.
“Voi due, venite con me,” il proprietario prese i polsi dei due androidi, trascinandoli via mentre il cliente, ancora furioso, si dirigeva fuori dal locale.
Connor non vide più i due androidi coinvolti, né il giorno successivo, né quelli seguenti.
Hank bevve l’ultimo sorso di Whiskey e sospirò, abbassando la testa. Era passata più di una settimana dall’omicidio all’Eden Club e mentre investigava su altri omicidi compiuti da androidi, non poteva far a meno di notarne il filo conduttore: erano tutti frutto di maltrattamento o abuso da parte di un umano sul proprio androide. Sembrava che quelle macchine, in qualche modo, avessero una coscienza o qualcosa che vi andava molto vicino.
E poi… quelle due Traci. Tra di loro sembrava esserci qualcosa. Amore, forse? Ma come potevano provare amore degli androidi?
Lui che aveva sempre odiato quei dannati affari, ora si ritrovava ad affogare nell’alcol non solo i dispiaceri della sua vita, ma anche la convinzione di essere dalla parte sbagliata della barricata.
Cazzo.
E poi c’era quell’androide. Quel prototipo. Lo aveva guardato e aveva deciso di collaborare e poi era successo qualcosa che lo aveva fatto desistere.
Chiese un altro bicchiere al barista del Jimmy’s Bar. Aveva bisogno di bere ancora e ancora, magari per una volta ci sarebbe rimasto secco.
L’unica cosa che riuscì a fare dopo l’ennesimo bicchiere, fu trascinarsi fuori dal bar non appena Jimmy glielo chiese, scusandosi con lui perché “stava chiudendo”.
Hank gli fece un cenno con la mano e si rifugiò nella propria macchina, aspettando di smaltire un po’ la sbronza prima di partire. Si guardò intorno; la strada era illuminata dai lampioni e stava piovendo, il tutto regalava ai suoi occhi un po’ brilli, uno spettacolo di luci particolare. Poco distante da lì c’era l’Eden Club.
La sua mente fu attraversata al volo dall’immagine dell’androide al palo, il suo sorriso, il suo fisico perfetto, i suoi occhi.
Sentì i pantaloni diventare un poco più stretti a quel pensiero e vi passò la mano sopra.
Era diventato un fottuto pervertito, forse? Non era lui quello che criticava chi andava a “puttane androidi”? Lui non voleva una bambola di plastica da rompere e scopare a proprio piacimento, anzi, lui non voleva nessuno.
Lui voleva solo la morte, al massimo.
Eppure… eppure voleva anche rivedere quell’androide, il quale aveva misteriosamente catturato la sua attenzione.
“Vaffanculo,” mormorò tra sé e sé, dando un colpo con le mani sul volante.
Era sicuramente colpa dell’alcol, ma tant’è che erano giorni che quel pensiero continuava a martellargli la testa, fino a farlo ritrovare in doccia con pensieri spregevoli e il proprio membro in mano, alla ricerca di una consolazione.
Scese dalla macchina con uno scatto, chiudendola e dirigendosi verso l’Eden Club, smettendo di farsi domande.
Che il cielo lo avesse fulminato, stava andando a scoparsi un androide.
Connor vide avvicinarsi un uomo sulla cinquantina, qualcuno che in realtà, sapeva di aver già visto anche se non poteva averne la certezza matematica. Il suo software attivava occasionalmente una sorta di svuotamento della cache, dove venivano cestinate le informazioni poco rilevanti o alcuni rapporti con i clienti. Era una precauzione per evitare traumi o sovraccaricamento da informazioni.
Tuttavia, mentre quell’uomo lo guardava con indecisione, Connor sentì il bisogno di essere scelto e qualcosa, nel suo sistema, vibrò. Un errore.
Gli androidi non avevano bisogni.
Hank esitò, fermandosi di fronte alla teca numero 8, quella dell’androide che lo aveva colpito così tanto la volta precedente.
Lo guardò a fondo. Osservò ogni suo lineamento, le sue labbra perfette, il fisico giovane - beh, certo che lo era, si ripeté. Era una macchina. Era fatto per essere perfetto - e di certo non poté lamentarsi quando lo sguardo gli ricadde sul sedere, che l’androide stesso sembrava avergli volutamente mostrato.
Voleva dare la colpa all’alcol e avrebbe fatto così, esattamente come faceva anche ogni volta in cui pensava di uccidersi e poi non ci riusciva. Dava sempre la colpa a quello, così era più facile crollare addormentati sul tavolo, piuttosto che ammettere di avere paura.
Guardò l’interfaccia accanto alla teca. Sarebbe bastato appoggiare la mano e avrebbe pagato per averlo, avrebbe pagato per trascorrere del tempo con un androide.
“Sono RK800, ma per lei stasera sarò Connor.”
“Sì… io sono Hank,” imbarazzato, si portò una mano dietro al collo, “dove…”
Connor gli tese la propria e lo afferrò per il polso, dolcemente.
“Da questa parte,” sussurrò, conducendolo verso la stanza blu. Hank lo seguì senza dire niente sentendosi colpevole e sporco, ma al tempo stesso tremendamente eccitato.
Non c’era niente di male, no? Finché lo avrebbe trattato con rispetto… In fondo non aveva rapporti con qualcuno da un sacco di tempo e beh, aveva passato gli ultimi anni a masturbarsi da solo davanti a qualche porno, magari per una volta non sarebbe successo niente.
Solo per una volta.
Entrò nella stanza, accompagnato da Connor.
L’androide si avvicinò al bancone presente nella camera, facendo uscire dal ripiano una serie di bottiglie e due bicchieri.
“Gradisce qualcosa da bere?” chiese, voltandosi verso Hank. Il cliente annuì.
“Un po’ di whisky andrà benissimo,” rispose e Connor sapeva che il suo ospite aveva già bevuto a sufficienza, perciò non gli versò troppo alcol nel bicchiere, premurandosi della sua salute.
Si avvicinò a lui ancheggiando, i piedi nudi sul pavimento e soltanto gli slip a coprirlo. Portava il bicchiere in una mano e glielo allungò con una grazia incredibile. Hank non poteva far a meno di chiedersi come fosse possibile che una cosa così semplice come servire un drink potesse diventare un atto di corteggiamento, o qualcosa del genere.
“Quindi tu… fai…” bevve un sorso, cercando di rompere l’imbarazzo. Voleva davvero scopare, ma non sapeva da dove cominciare. Era tutto così asettico attorno a lui. Certamente non doveva essere l’arredamento il punto della questione, e alla fine le stanze erano pulite, le luci soffuse, le lenzuola del letto estremamente morbide… ma comunque si sentiva vagamente a disagio nonostante il quantitativo di alcol presente nel suo corpo.
“Qualunque cosa lei voglia,” Connor si posizionò sulle sue gambe, a cavalcioni. I loro visi ora erano estremamente vicini e il battito cardiaco di Hank cominciò a diventare un po’ troppo veloce. “Posso essere il suo compagno innamorato e appassionato per stasera oppure posso essere la sua puttana, o qualunque altra cosa lei desideri…”
Allungò una mano, pensando quasi come un azzardo quella mossa. Toccò il suo petto e poi scivolò lentamente verso i fianchi, passando i polpastrelli su quella pelle innaturalmente liscia e morbida. Era calda, esattamente come quella di un umano.
Incredibile quanto la tecnologia potesse assottigliare il concetto di realtà e finzione.
“Qualunque cosa…” ripeté Hank, incantato dal viso dell’androide. I suoi lineamenti erano dolci, non perfetti, ed erano quelle imperfezioni a renderlo così simile ad un uomo, tanto da sfumarne il confine.
Con le mani cominciò ad abbassargli i boxer e Connor gli facilitò immediatamente il compito, facendoseli sfilare.
“Lei è ancora vestito…” sussurrò poi, al suo orecchio. Hank sentì il corpo vibrare e una scossa di eccitazione percorrerlo. Quel fottuto androide.
Connor cominciò a sbottonargli la camicia, rivelando il fisico dell’altro tutt’altro che perfetto.
Fece una scansione rapida e finalmente si ricordò di lui. Era seppellito lì, nella sua memoria digitale, non lo aveva mai davvero eliminato.
“Tenente…” Connor fece scorrere le labbra dall’orecchio dell’uomo fino al collo, lasciandovi una scia di baci leggeri. A quanto pare gli piacevano quelle piccole accortezze, perché poteva sentire l’erezione del cliente pulsare contro la sua gamba.
“Connor…” l’uomo chiuse gli occhi, e Connor sentì i suoi muscoli rilassarsi leggermente. Aveva notato quanto fosse a disagio dal suo comportamento. Solitamente i suoi clienti lo sbattevano sul letto e se lo scopavano senza troppi complimenti in mezzo.
“Cosa vuole, tenente? Me lo dica.”
L’uomo gli afferrò la mano, portandola sulla propria erezione e Connor non se lo fece ripetere. Cominciò ad accarezzarlo lentamente, inizialmente da sopra i pantaloni, per poi cominciare a sbottonarli lentamente.
“Lo sai,” ringhiò tra i denti, portando una mano dietro il collo di Connor e stringendo un poco, mentre cercava di contenersi.
Probabilmente la cosa più innaturale di quel momento era ciò che stava provando Connor. Una serie di errori di sistema si stavano sovrapponendo, mentre lasciava che le mani di quell’uomo lo toccassero lungo il collo, lungo la schiena. Stava provando qualcosa di innaturale; erano brividi leggeri, sensazioni che normalmente non aveva mai provato o non avrebbe dovuto provare.
Errore di sistema.
Il suo led lampeggiò di giallo, mentre Hank continuava ad aggrapparsi alla sua schiena, premendo le dita su di essa.
Connor aveva cominciato a masturbarlo, liberando il suo membro dai boxer larghi. Un gesto meccanico: far scorrere la mano, guardare il suo cliente negli occhi, fare qualcosa di sexy, provare a sedurlo, farsi scopare.
Eppure qualcosa era diverso mentre muoveva su e giù la mano, sentendo il bisogno di fare di più. Ancora di più.
Non appena Connor cominciò a toccarlo, Hank ringraziò tutti i santi esistenti al mondo perché Dio, quella era la sensazione più bella che avesse provato nell’ultimo periodo. Solitamente era abituato a sentire la propria mano, ruvida e callosa, accarezzare il proprio membro. Ora c’erano delle dita lisce ed evidentemente sapienti, perché non stava sbagliando niente, nemmeno una carezza.
Pregò per avere di più.
Voleva di più.
“Succhiamelo, ti prego,” disse tra i denti, guardando l’altro. Ormai la sua mente non riusciva nemmeno più a classificarlo come un androide. Era semplicemente qualcuno con cui stava avendo un rapporto. Niente di più, niente di meno.
Connor scese subito tra le sue gambe, obbedendo con una reattività allucinante. Cominciò a lasciare dei baci vicino ai testicoli, aprendogli sempre di più le gambe per muoversi meglio.
Era lo spettacolo più erotico che avesse mai visto e Hank si fece un po’ schifo per aver fatto quel pensiero. Diamine. Quel ragazzo avrà avuto vent’anni meno di lui, aveva un fisico asciutto, la pelle pallida, le lentiggini. Dio, pure le cazzo di lentiggini.
E lui cos’era? Un uomo distrutto, un disastro.
Reclinò la testa, buttandola sul cuscino e cercando di non pensare a quanto la propria vita fosse una schifezza.
La bocca di Connor sembrava un ottimo modo per smettere di pensare, perché quando la sua lingua passò sulla lunghezza del proprio pene, Hank non poté far a meno di gemere e concentrarsi unicamente su ciò che l’altro stava facendo.
Connor si lasciò guidare dai bisogno di Hank, esattamente come faceva per ogni cliente. Tuttavia, c’era qualcosa di diverso in lui che non riusciva bene a comprendere.
Oltretutto, Connor non poteva far a meno di pensare quanto fosse piacevole fare sesso con lui. Aveva avuto clienti più giovani e prestanti, ma le imperfezioni di Hank rendevano più interessante l’esperienza.
Passò una mano sul petto dell’uomo, facendola scorrere verso il ventre, mentre continuava a leccare e succhiare, concentrandosi sulla punta del suo membro.
Era piuttosto impegnativo, perché di sicuro il suo cliente non era poco dotato, anzi.
Hank gemeva, alzando i fianchi e spingendosi sempre di più nella bocca di Connor, ricercando più contatto. Allungò una mano verso di lui, afferrandogli i capelli e spingendolo sempre più giù. Voleva sentirlo tutto, voleva sentirsi completamente sopraffatto.
“No… no…” ansimò, lasciando di colpo i capelli di Connor, il quale alzò la testa e lo guardò con quei dannati e dolcissimi occhi marroni.
“Non così.”
“Vuole prendermi, tenente?”
“Hank.”
“Vuole scoparmi, Hank?”
Non se lo fece ripetere due volte. Afferrò Connor e si ritrovò a poche spanne dal suo volto. Poteva sentire il proprio odore provenire dalle labbra del ragazzo, e un po’ se ne vergognò, sebbene la cosa fosse al tempo stesso eccitante.
“Sì, lo voglio,” sussurrò, guardandolo e abbassando lo sguardo, facendo sì che l’altro si sistemasse sulle sue gambe. Avrebbe voluto farlo da dietro, su un primo momento, ma vedendo il suo viso pensò a quanto potesse godere nel vederlo eccitato e nel vedere quei dolci lineamenti contrarsi per lui.
Si girò per cercare qualcosa con cui lubrificarlo. Connor assunse un’espressione confusa che Hank riuscì immediatamente a cogliere.
“Non hai del lubrificante?”
Connor sorrise.
“Gli androidi hanno una funzione di autolubrificazione, non c’è bisogno di protezioni e neanche di altri strumenti…”
“Hanno pensato proprio a tutto,” mormorò Hank, ricordandosi soltanto in quel momento che l’uomo che aveva tra le braccia, non era umano. La sua mente tendeva ad evitare il pensiero in alcuni momenti, forse per sentirsi meno sbagliato e incoerente.
Connor stava eseguendo tutto alla perfezione e il suo cliente si stava dimostrando sorprendemente tranquillo e collaborativo. “Sorprendentemente” perché su un primo momento Hank non sembrava il tipo in grado di lasciarsi andare, ma forse l’alcol aveva agito per lui.
Afferrò con una mano il pene del cliente e strofinò le natiche su di esso, fino a farlo scivolare lungo la sua apertura.
La facilità con cui Hank si ritrovò dentro il corpo di Connor lo sorprese. Non c’era abituato e ora riusciva a comprendere l’articolo che aveva letto sul sesso androide.
Assecondavano ogni cosa, la rendevano più semplice, erano programmati per essere perfetti e seducenti. E se questa cosa a mente lucida gli faceva ribrezzo, in quel momento non riusciva a far altro che godersi la sensazione.
“Cazzo…” mormorò, spingendo i fianchi in alto e tenendo quelli dell’androide.
Connor cominciò a muoversi su e giù, facendolo entrare il più possibile e poi uscire un poco, ondeggiando i fianchi e aggrappandosi con una mano alla spalla del cliente.
“Connor…” Hank chiuse gli occhi, stringendogli i fianchi e spingendolo sempre più giù, con il bisogno urgente di sentirlo di più, sempre di più.
La sua mente si svuotò e per qualche minuto si ritrovò soltanto col pensiero di voler venire, di assecondare quegli istinti al limite dell’animalesco, scopando l’essere che aveva tra le braccia e che lo stava accogliendo con così tanta disponibilità.
“Non riuscirò a resistere ancora a lungo, forse dovrei…” ansimò, guardandolo negli occhi.
“Non si deve preoccupare, può venire dentro,” rispose Connor, accondiscendente come sempre. Quella risposta se da un lato lo fece vibrare ancora di più d’eccitazione, dall’altra lo indispose. Era tutto ok, qualunque cosa facesse andava bene. Era così… innaturale.
Appoggiò la fronte sulla spalla di Connor e con un’ultima spinta, più lunga delle altre, venne dentro di lui, liberandosi di tutta la frustrazione.
I suoi muscoli si rilassarono poco dopo; le braccia erano attorno al corpo di Connor, la fronte appoggiata sulla sua spalla e il suo membro si era ammorbidito leggermente, facendo sì che al minimo movimento dell’altro potesse scivolare fuori dal corpo dell’androide.
Rimase così per qualche minuto, non riuscì a quantificare il tempo esatto. Concentrò le sue energie per riprendersi da quello che era sicuramente uno degli orgasmi più forti che aveva provato negli ultimi tre anni.
“Cazzo…” mormorò, chiudendo gli occhi.
La mano di Connor si appoggiò sulla sua schiena e riuscì a percepirla come qualcosa di caldo e morbido, umano.
“Tu non sei venuto,” sussurrò Hank, ancora con gli occhi chiusi. In effetti, da quando avevano cominciato a farlo, aveva egoisticamente pensato solo a se stesso, non premurandosi mai di rendere il favore all’altro. A stento aveva effettivamente controllato se in mezzo alle sue gambe ci fosse un pene.
In effetti c’era, ed era leggermente colorato di blu. Hank suppose che quella reazione fosse data dal thirium, l’unica vera cosa così diversa dagli uomini. Chissà perché non avevano pensato a renderlo rosso, la differenza con gli umani sarebbe stata ancora più sottile.
“Io non ho bisogno di venire, non è nel mio programma,” la risposta di Connor fu estremamente semplice. La sua voce era limpida, non c’era segno di affaticamento.
“Che cazzo…” ripeté, ancora.
“Lei impreca un sacco, tenente.”
Hank gli rivolse un’occhiata perplessa. Sì, imprecava un sacco. E quindi?
“Non è di questo che stavamo parlando.”
“Lo so.”
Hank guardò le lenzuola sporche e sgualcite e poi guardò l’androide, che si era seduto al suo fianco con le ginocchia piegate e una compostezza invidiabile.
“Non posso dirle molto altro se non la verità: noi androidi siamo programmati per dare piacere, non per riceverne.”
“Mi stai dicendo che non avete nessuna zona erogena, nessun ricettore e che è tutta finzione? Anche… anche quello?” Hank indicò l’erezione ancora presente tra le gambe di Connor, il quale si guardò incuriosito.
“Abbiamo dei sensori che ci permettono di imitare il piacere in modo da essere più credibili, tuttavia per noi non è indispensabile raggiungere l’orgasmo. È possibile farlo nel caso in cui il cliente lo richieda specificatamente.”
“Però, in effetti, è innaturale…” Connor portò una mano sul proprio membro, accarezzandolo, “solitamente dopo un rapporto concluso, se il cliente non ha maggiori richieste, i nostri sensori si spengono e di conseguenza non è possibile mantenere un’erezione. Non so spiegarle perché stavolta non sia così, credo di avere qualche malfunzionamento…” spiegò, e Hank aggrottò le sopracciglia.
Forse avrebbe dovuto fare qualcosa? Avvicinarsi e toccarlo?
Non sapeva cosa provare.
Avrebbe svolto al meglio il suo lavoro. La CyberLife lo aveva prodotto con l’intento di creare un nuovo modello di androidi del piacere, dopo alcuni modelli che sembravano non rispondere più alle esigenze di mercato.
Connor doveva essere il prototipo perfetto: una macchina definita per compiere il suo dovere senza se e senza ma, senza la possibilità che si ribellasse o che potesse anche solo mettere in discussione il piacere del cliente.
Il perché questo non fosse così fin da prima, a Connor risultava strano, ma in fondo era attivo solo da un giorno e non poteva certo sapere quali fossero stati i problemi degli altri androidi. Aveva sentito parlare di malfunzionamenti da parte del gestore del locale, il quale lo aveva quasi minacciato dicendogli di non fare cazzate, di non opporsi a nessuna richiesta e di non pretendere piacere da parte di un cliente. Lui doveva soltanto dare.
Entrò nella propria vetrina, la numero 8, la quale si chiuse davanti a lui non appena si posizionò sulla pedana interna, dove sarebbe dovuto rimanere finché un cliente non l’avesse richiesto; avrebbe potuto ammiccare, al massimo, o salutare. Mentre era dentro quello che, apparentemente, sembrava un cilindro di vetro, osservava gli altri suoi simili vicini ai pali, i quali si muovevano sinuosamente, volteggiando con grazia e sensualità, qualcosa che per il momento non aveva avuto modo di sperimentare, anche se probabilmente faceva parte del suo programma. Magari un giorno avrebbe potuto provare anche lui.
Dopo svariate ore in cui Connor chiuse ed aprì gli occhi in attesa di un segno, un cliente, un uomo, passò di fronte a lui e lo guardò. Connor cercò di ammiccare, ma probabilmente senza troppo successo, poiché il cliente si rivolse immediatamente alla vetrina dopo di lui. Beh, forse non era il suo tipo o semplicemente non era interessato agli androidi di sesso maschile poiché, l’altra che decise di noleggiare, era effettivamente una donna.
Connor ancora non sapeva precisamente quale fosse il motivo per cui un essere umano preferiva un sesso piuttosto che l’altro. Nel mondo androide, tale distinzione era davvero sottile: erano tutte macchine, chi con qualche attributo in più, chi con qualche attributo in meno. Anche le differenze che caratterizzavano la popolazione umana, quali peso, etnia, connotati, negli androidi erano costruiti per dare semplicemente un maggior senso di integrazione con gli uomini, o in alcuni casi per lo svolgimento delle mansioni ai quali erano relegati. Nel suo caso, l’importante era avere un aspetto piacevole, qualcosa che potesse attrarre il cliente. In compenso, a lui non avrebbe fatto alcuna differenza se ad approcciarsi fosse stato un uomo o una donna. Era stato creato per non avere preferenze di sorta.
L’uomo noleggiò l’androide per una mezz’ora, e uscì dalla stanza riallacciandosi la cintura e sistemandosi la camicia. Connor lo seguì con lo sguardo, finché improvvisamente, qualcosa scattò dentro di lui e istintivamente eseguì una scansione identitaria di quel cliente: quarant’anni, impiegato d’ufficio, aveva perso il lavoro qualche settimana prima, eterosessuale, una moglie e due bambini.
Connor spalancò gli occhi, vacillando solo un attimo dopo: sapeva di avere una funzione di scansione all’interno del proprio sistema, ma non aveva ancora avuto modo di sperimentarla e quell’azione non fu volontaria, almeno in quel momento. Probabilmente avrebbe dovuto fare un’autoscasione e sistemarsi. Per quel che ne sapeva, la funzione era stata prevista al solo scopo di conoscere i gusti dei propri clienti e sapere come poter agire nel migliore dei modi per soddisfarli.
“Lui è nuovo,” affermò una voce, fermandosi di fronte alla vetrina. Una ragazza lo stava osservando, parlando con il proprietario del locale, che di tanto in tanto faceva una visita all’interno dell’Eden Club per constatare che tutto fosse svolto con regolarità.
“Anzi, potrei dire nuovissimo. Un prototipo che ha mandato la CyberLife, per il momento il più efficiente sul mercato… non ce ne sono altri come lui. Se sarà fortunato, diventerà una serie gettonata. Per questo è leggermente più costoso, ma signorina posso prometterglielo, ne varrà la pena. A differenza degli altri androidi qui dentro, è dotato di alcune caratteristiche che lo rendono più simile di tutti agli esseri umani, pur rimanendo un androide, naturalmente. Visto ciò che sta succedendo in giro, stiamo valutando di cambiare tutti con questi modelli avanzati, in modo da non avere problemi… se sa cosa intendo.”
La ragazza vacillò e Connor poté notare la sua espressione corrucciata mentre si guardava intorno.
“Il prezzo non è trattabile? Lui non sembra troppo diverso dagli altri.”
Il proprietario del locale guardò Connor e gli fece cenno di muoversi appena. Doveva forse convincere quella ragazza?
Si voltò appena, muovendo il collo, le spalle, un poco le gambe. Troppo rigido. Il software stesso quasi lo ammonì per questo. Era nato per essere perfetto, doveva essere perfetto e compiere il suo dovere.
“Gli darò un’occasione,” si espresse, appoggiando la mano sull’interfaccia vicino alla porta di vetro, la quale si aprì di fronte a Connor, che scese dalla pedana e prese la mano della ragazza con delicatezza.
Il proprietario sorrise, soddisfatto.
Connor varcò le soglie della stanza blu con la ragazza che gli teneva la mano. I clienti non desideravano una relazione con un androide, per questo li noleggiavano per qualche ora o minuto, tuttavia loro dovevano cercare di creare un legame, qualcosa che spingesse l’umano a sentirsi a suo agio con esso, per questo gli androidi che la CyberLife costruiva per essere partner sessuali erano, più di altri, comprensivi e accomodanti. Dovevano somigliare il più possibile agli umani, o si sarebbe creato un distacco che avrebbe potuto anche penalizzare il rapporto.
Connor sapeva bene tutto ciò, e per questo aveva preso la mano della ragazza, l’aveva fatta accomodare sul letto dolcemente, e aveva eseguito una veloce scansione, stavolta volontaria, delle sue caratteristiche. Da ciò che aveva potuto notare, la sua cliente aveva gusti piuttosto normali, il che poteva essere un bene visto che quella era la sua prima vera prestazione.
“È la tua prima volta qui?” domandò Connor, mentre si avvicinava a lei, sistemandosi al suo fianco e cercando di metterla a suo agio.
“No,” rispose la ragazza, freddamente. Sembrava piuttosto nervosa, come se non volesse parlare. Eppure, secondo i dati rilevati, doveva essere una persona socievole.
Si tolse il reggiseno, gli slip e si mise di nuovo al fianco di Connor.
“Mi chiamo Connor,” decise di presentarsi per metterla a suo agio, baciandole la mano dolcemente e guardandola come se provasse del reale desiderio nei suoi confronti.
“Claire,” rispose, un pochino meno scostante. Connor voleva continuare la conversazione, ma al tempo stesso non sapeva come fare, come muoversi. Eppure lui doveva essere il migliore lì dentro, le persone pagavano di più per la sua prestazione.
Si avvicinò al viso della ragazza, dapprima posandole le labbra sullla guancia e poi scendendo sul collo, lasciandole una scia di baci leggeri, sensuali, mentre le mani cominciavano ad accarezzarle le gambe. C’era qualcosa di sbagliato, ma non riusciva a comprendere che cosa, né se fosse in lui, o in lei.
Era solo il suo secondo giorno di attività, anzi il primo, forse poi sarebbe andato meglio.
Connor continuò a salire con le dita e si bloccò soltanto poco dopo, quando sul volto della ragazza cominciarono a scorrere delle lacrime. Non era stato abituato alle emozioni umane, ma una delle sue caratteristiche peculiari era proprio l’adattabilità ai propri partner, perciò si spostò leggermente e smise di sedurla.
“Ho sbagliato qualcosa?” chiese Connor, spostandole una ciocca di capelli dal viso.
“No… io… tu somigli così tanto a lui. Mi ero avvicinata perché la somiglianza era davvero molta e io… pensavo di poterlo fare, ma non posso,” la ragazza tirò a sé il lenzuolo, e sebbene Connor stesse per considerarla una sconfitta personale e per il suo dovere, riuscì a comprendere di cosa parlasse la ragazza dopo aver fatto un’altra scansione, stavolta più approfondita. Il primo indizio fu l’anello al dito; secondo i suoi risultati non era impegnata, ma aveva comunque quello che era a tutti gli effetti un pegno di fidanzamento.
“Ti ha lasciato poco tempo fa?” chiese Connor.
“Due settimane fa. L’ho trovato a letto con un’altra e… niente, le classiche storie. E ora sono qui, che ne parlo con un androide. Vengo qua quando voglio fare del sesso disinteressato perché so che voi androidi non potete legarvi. Nessun problema, sesso divertente, senza impegno e qualche buon orgasmo… lontano dai pericoli e dal dolore. Ma con te è diverso. Hai fatto qualcosa, prima, che oltre all’aspetto mi ha ricordato lui e… non posso. Mi dispiace,” Claire prese di nuovo il reggiseno che si era tolta poco prima e lo indossò nuovamente. “Credi che potrò chiedere un rimborso? Ovviamente non è colpa tua…”
Connor scosse la testa. Non erano problemi di sua competenza. Naturalmente non provò niente di fronte a quella ragazza, ma mostrò comunque un briciolo di empatia per lei e la accompagnò fuori dalla stanza con dolcezza e cercando di confortarla. Sapeva che era la cosa giusta da fare.
Connor tornò nella sua vetrina. Il capo gli puntò il dito contro e lo guardò dritto negli occhi.
“Lo sai che ti pagano profumatamente per una performance speciale? Cosa cazzo fanno quelli della CyberLife? Nemmeno un giorno che sei qui e una cliente chiede già il rimborso? Spero per te che sia l’ultima volta,” affermò, sbuffando.
Connor chinò appena la testa, scusandosi.
“Non fallirò ulteriormente, glielo posso garantire.”
“Allora smettila di fare la scopa in culo e muoviti. Non vedi i tuoi colleghi? Dovresti essere come loro, invece te ne stai lì, come un pesce rincoglionito. Cazzo!” L’uomo si portò le mani sui fianchi e il led di Connor divenne giallo per qualche istante. “Devi comprarli, i clienti. Devi attrarli, devi essere sensuale, devono capire che vale la pena spendere soldi per te. Non ti hanno inserito queste cose basilari in quel cervello di latta? Mah…”
“Mi dispiace, migliorerò. Non farò andar via nemmeno un cliente, posso prometterglielo”.
“Sarà meglio.”
L’uomo se ne andò, dando le spalle a Connor e sparendo al di là dell’ingresso.
Connor chiuse gli occhi. Non sarebbe stato semplice.
Passarono giorni, settimane. Connor cominciò a prendere familiarità con i clienti, perlopiù donne. In generale, sembravano gradire tutti il suo modo di fare, tuttavia nessuno tornava più di una volta tranne qualche cliente, principalmente di sesso maschile. Connor non riusciva a spiegarsi il motivo di questa percentuale.
L’Eden Club era allestito in modo da mettere in risalto gli androidi di punta, cosa che Connor doveva essere. Perciò sapeva che se fosse arrivato ai pali al centro della sala sarebbe stata una cosa positiva, in quanto più persone lo avrebbero scelto ed avrebbe quindi avuto più possibilità di compiere il suo dovere.
Il proprietario del locale, David, si avvicinò a lui quel giorno e aprì la vetrina, facendolo uscire.
“Tocca a te oggi, stare ai pali. Mi raccomando, non mi deludere.”
Connor annuì, scendendo con i piedi nudi sul pavimento freddo del locale. Si avvicinò alle pedane e salì, aggrappandosi al palo e guardando i movimenti dei suoi colleghi, studiandone le movenze e rielaborandole. Doveva fare del suo meglio e conquistare più clienti possibili.
Era sabato sera, e il locale era ancora più affollato del solito: quello era un giorno piuttosto florido per l’affitto di androidi del piacere, considerando che per molti il sabato era un giorno di solitudine o di svago. C’era chi era solo, e c’era chi aveva deciso di abbandonare la famiglia, o chi decideva di affogarsi nell’alcol e nel sesso per dimenticare e, talvolta, anche nella droga. Connor temeva quel genere di clienti: una volta era successo. Un uomo era andato da lui, fatto di Red Ice fino al midollo e aveva provato a prenderlo non appena si era chiusa la porta alle loro spalle. Gli aveva stretto i polsi con forza ma, per fortuna, dopo un paio di tentavi quasi violenti, Connor era riuscito a scrollarlo sul letto, dove l’uomo era collassato addormentato..
Purtroppo erano episodi frequenti e, nonostante lui fosse soltanto una macchina con delle reazioni, non voleva essere spedito alla CyberLife per essere cambiato o riparato. Aveva visto come spesso gli androidi che uscivano da lì non facessero più ritorno, finendo, probabilmente, disattivati. O almeno era ciò che poteva immaginare dalle chiacchiere fatte dal proprietario con i clienti che si lamentavano delle scarse prestazioni di alcuni di loro.
Cominciò a muoversi attorno al palo alla ricerca di qualche sguardo interessato. C’erano qualche donna e moltissimi uomini, quella sera. Anche se in effetti era così la maggior parte delle volte. Era lì, e stava facendo ciò che doveva fare, niente più, niente meno.
La sua attenzione venne attirata da un androide che uscì, da solo, dalla stanza rosa del locale. Solitamente androide e cliente uscivano insieme, mai separati.
Continuò a muoversi, smettendo di guardare i clienti e seguendo con lo sguardo l’androide che si stava allontanando sempre di più sia dalle celle che dalla stanza. Forse era successo qualcosa? In ogni caso, non era affar suo.
“Come sei bello,” commentò un uomo sulla cinquantina, guardandolo. Connor si bloccò e gli sorrise, sensuale, porgendogli la mano come per chiedergli se fosse interessato.
“Oh, no, ti ringrazio. Io sono… qui per qualche androide donna. Non sono…” rispose ancora, confuso.
Connor guardò l’uomo e non capì, su un primo momento. Decise di fare una scansione per saperne di più: un avvocato, con tre figli e una moglie. Omosessuale non dichiarato, probabilmente.
“Sei al sicuro, qui,” aggiunse Connor, sorridendogli. Era nel suo programma, doveva farlo. “Nessuno ti giudicherà.”
L’uomo fece un paio di passi indietro, mettendosi le mani in tasca e guardando Connor con aria colpevole, ma estremamente attratta. Ogni suo movimento sembrava indicare un contrasto tra il nervosismo e l’eccitazione.
“Quaranta minuti,” affermò poi, velocemente, quasi come se nessuno dovesse sentirlo.
Connor scese dalla pedana, incontrando lo sguardo del proprietario del locale che annuì leggermente. Stava facendo un buon lavoro.
Connor aveva eseguito degli upgrade dai primi giorni in cui era lì, e per questo si stava spargendo la voce sulla sua effettiva bravura, sebbene in pubblico non fosse ancora il modello più attraente, poiché al di là del bell’aspetto, non riusciva a sedurre i clienti con movenze particolarmente sensuali o sguardi ammiccanti. Era nel suo programma, ma per qualche ragione, i vecchi modelli sembravano più adatti al compito.
Quel giorno, mentre entrava nella stanza con quello che sembrava a tutti gli effetti un cliente difficile si sentiva quasi sfidato. L’importante, per raggiungere l’obiettivo prefissato dal software, era riuscire a far godere al massimo il proprio partner. Connor ci riusciva più facilmente con gli uomini, non sapeva per quale motivo, eppure i dati a disposizione erano equivalenti sia per un sesso che per l’altro. Il sesso maschile forse era più semplice, oppure non aveva ancora compreso fino in fondo come sedurre le donne. Solitamente, la maggior parte degli uomini desideravano essere davvero un partner attivo e quindi ricercavano in lui qualcuno da sottomettere, a cui fare cose, piuttosto che qualcuno da cui riceverle
Il cliente non perse tempo, e non appena si chiuse la porta, spintonò Connor sul letto, togliendosi la cintura.
“Non so come tu abbia fatto a capirlo…” disse l’uomo, sganciandosi i pantaloni, “ma sei perspicace… e interessante. La mia omosessualità deve rimanere nascosta, capisci? La mia famiglia…”
Connor annuì, sorridendo e porgendogli la mano.
“Tutto ciò che avverrà all’interno di questa stanza rimarrà segreto.”
Poco prima che si avvicinasse al letto, eseguì un’altra scansione, cercando di capire a cosa sarebbe andato incontro da lì a poco. I modi di quell’uomo sembravano violenti, irruenti.
Fu subito dopo quella considerazione che dei rumori inconsueti li interruppero, tra i quali un avviso, che seguì poco dopo, dove si chiedeva ai clienti di lasciare il locale e ricomporsi.
“Cazzo…” mormorò l’uomo, riallacciandosi i pantaloni con nervosismo. “Evidentemente non doveva andare…”
Connor chinò lo sguardo, dispiaciuto, alzandosi dal letto e uscendo dalla stanza.
“Spero che almeno vengano dati dei rimborsi, in questi casi,” borbottò, e Connor si avvicinò alla pedana dalla quale era sceso poco prima, ignorando le proteste del cliente, il quale andò immediatamente a compilare la procedura elettronica per il rimborso. Era la seconda volta che succedeva da quando era arrivato al locale, sperava vivamente che il capo non se la prendesse con lui.
“Ci dispiace per il disagio, ma il locale dovrà rimanere chiuso per qualche ora,” una voce all’interfono bloccò tutti gli androidi, i quali smisero per qualche minuto di muoversi attorno al palo.
“Ho sentito dire che è fuggito un androide…” sussurrò una signora di mezza età ad un altro che le aveva chiesto cosa fosse successo. I due sparirono oltre la porta d’ingresso, che venne contrassegnata poco dopo da un segnale rosso, il quale recitava la scritta “closed”.
“Tenente Anderson,” un uomo, che avrà avuto su per giù cinquant’anni, con la barba ispida e bianca, mostrò il distintivo all’ingresso. Era accompagnato da un altro paio di colleghi, i quali cominciarono ad esaminare il locale.
“La stanza rosa. Abbiamo trovato il cadavere, ma l’androide sembra essere riuscita a fuggire,” spiegò David.
“Con quello che sta succedendo in giro, non c’è da meravigliarsi,” commentò uno degli uomini. Sul suo petto c’era un distintivo che recitava “Detective Gavin Reed”.
“Fottuti androidi… ancora mi chiedo come attività del genere possano andare avanti…”
“Gavin, non siamo qui per ascoltare la tua merda sugli androidi. Quindi, signor David, lei esattamente cosa fa qui se non controllare che i clienti non vengano uccisi? Perché mi viene da chiedere come sia possibile che un androide sia uscito dal suo locale e lei non se ne sia nemmeno accorto.”
David si strinse nelle spalle, con aria colpevole.
“Sono stato assunto recentemente per controllare che non vi siano anomalie nei sistemi automatizzati e per supervisionare giornalmente gli androidi. Tuttavia non rimango qui per tutta la giornata,” spiegò, guardandosi intorno. “Se fossi stato presente, non sarebbe successo…”
“O magari sarebbe successo comunque. Non ha sentito parlare della ribellione degli androidi?” osservò Gavin, guardandosi attorno con disprezzo. Sembrava odiarli parecchio.
“Certo! Ed è per questo che stiamo testando questo prototipo,” David si incamminò verso Connor, il quale continuava a muoversi lentamente, poco interessato al suo compito in quel momento, quanto più a ciò che stava succedendo. Non era nel suo programma interessarsi, ma visto che stavano parlando di loro, era sensato ascoltare.
“Si tratta di un androide di ultima generazione, un prototipo. RK800, è in test da un mese e stiamo programmando di cambiare tutti gli androidi con quelli di questa linea, ma fintanto che non produrrà più profitti degli altri, l’azienda non ci permetterà la disattivazione dei modelli più vecchi.”
Connor incrociò lo sguardo del tenente, il quale gli rivolse un’occhiata svogliato su un primo momento, mentre il suo collega, quel Gavin, si lasciava scappare una risata.
“Potrete anche sostituirli tutti con modelli avanzatissimi, ma ciò non cambia che finiranno tutti alla discarica, un giorno o l’altro.”
“Gavin stai zitto, per l’amor del cielo,” ringhiò Anderson, voltandosi verso di lui per poi incrociare di nuovo lo sguardo di Connor.
“Quindi siete coscienti di avere dei modelli potenzialmente difettosi, eppure continuate a permettergli di lavorare…” mormorò, perplesso, sconfitto. “e state aspettando che questo prototipo vi arricchisca. Quante vite dovranno passarvi sotto le mani prima di fare la cosa giusta?” chiese, guardando David. Il proprietario fece un passo indietro.
“Credo sia il caso di analizzare il cadavere, non concorda, tenente?” David si diresse verso la stanza rosa, e Connor riprese a muoversi attorno al palo, ma lentamente, guardando i tre uomini scivolare via dal suo campo visivo.
Le parole del tenente lo bloccarono per qualche secondo. Esisteva realmente la possibilità che tutti gli androidi che aveva visto dentro al locale fino a quel giorno fossero disattivati tranne lui? Nonostante le implicazioni di quell'affermazione, quello non era un suo problema. Lui doveva semplicemente cercare di diventare più bravo, in modo da poter mantenere la sua posizione, niente di più, niente di meno.
L’androide femmina che si esibiva sulla pedana di fronte alla sua, guardò Connor e cercò di comunicare con lui.
“Ci disattiveranno tutti? Io non voglio morire…” mormorò, facendosi sentire soltanto da lui. Era un modello WR400, una Traci, una delle linee più richieste tra tutti i tipi di partner, e probabilmente le migliori mai progettate fino a quel momento allo scopo. O almeno, migliori prima di lui, per quanto ne poteva sapere.
“Non puoi morire,” Il suo led divenne giallo. “sei una macchina.”
La Traci assunse un’espressione cupa, scuotendo la testa e smettendo di muovere i fianchi, “questo è quello che dice la tua programmazione. Noi siamo vivi… Io… sono viva,” chiuse gli occhi e si aggrappò con una mano al palo, facendo un giro completo. “E non voglio morire qua dentro.”
Connor non riusciva a capire come potesse dire qualcosa di simile. Loro erano macchine con uno scopo, erano letteralmente creati e programmati per essere soltanto quello. Non… non avrebbero nemmeno dovuto avere un pensiero. Adesso Connor capiva come mai stavano progettando di sostituire tutti i modelli.
“... dobbiamo interrogare gli androidi e cercare di capire se qualcuno di loro ha visto la sospettata allontanarsi.”
“Non parleranno mai con noi, figurati se non tenderanno di coprirsi tra loro,” Anderson, Gavin e David uscirono dalla stanza rosa.
“Lo faranno, se minacceremo di disattivarli,” rispose David.
“Considerando la posizione, direi di cominciare da lui,” il tenente Anderson indicò Connor, il quale si rivolse a lui con un sorriso non appena si avvicinò.
“Io chiamo la scientifica,” Gavin si allontanò, non intenzionato a parlare con gli androidi, almeno da quanto sembrava.
Connor fece immediatamente una scansione rapida del tenente. Hank Anderson, cinquantatré anni, single, probabilmente faceva uso frequente uso di alcolici a giustificare dalle tracce di liquidi presenti sulla sua barba. Anzi, forse aveva consumato qualcosa poco prima di arrivare lì.
“Vediamo se sei avanzato come dicono…” mormorò, “come si fa a farli scendere dalle pedane?” David mostrò al tenente il metodo di pagamento grazie al quale gli androidi potevano uscire dalle vetrine.
“Sento che diventerò povero dopo questa indagine…”
“Naturalmente si tratta di un pagamento provvisorio, il rimborso avverrà entro ventiquattro ore. Non si preoccupi, tenente.”
Connor poté scendere dalla pedana una volta completata la transazione completata. Soltanto gli umani potevano svolgere quell’operazione, fino a quel momento era come se i piedi degli androidi fossero ancorati alla loro postazione, l’unico momento effettivo di libertà era, dunque, quello che intercorreva durante la prestazione.
“Sono a sua disposizione,” Connor accarezzò il polso del tenente con un tocco delicato. Hank ritrasse immediatamente la mano, “cosa cazzo… no emh, senti, c’è un malinteso. Dovresti… dobbiamo indagare. Hai visto un androide modello WR400 con i capelli blu allontanarsi?”
“Ti prego non dirglielo,” Connor recepì un’informazione nel suo sistema e il suo led lampeggiò di giallo. La Traci della pedana di fronte alla propria, lo aveva appena implorato di non dire niente. Si voltò verso il tenente e guardò di sfuggita l’androide con la coda dell’occhio.
“Non sono affari nostri,” rispose, senza emettere alcun suono ma mandando solo l’informazione.
“Ti prego…” la voce della Traci era disperata.
Connor chiuse gli occhi. Non erano affari loro. Loro erano lì per lavorare. Loro erano macchine.
Soltanto macchine.
Fottuti androidi.
Ogni volta che dalla centrale interrompevano un suo drink per un dannato caso dove erano coinvolti degli androidi, qualcosa dentro di lui si ribaltava.
Odiava quei pezzi di latta, ma in effetti, non odiava soltanto quelli.
Buttò giù l’ennesimo bicchiere di Whisky, quando dalla centrale arrivò un’altra chiamata. Appoggiò la pistola sul tavolo e rispose.
Un omicidio all’Eden Club.
Androidi e puttane. Sembrava proprio l’accoppiata perfetta per l’ennesima serata del cazzo.
14 Novembre 2038
Quando si trovò di fronte a quell’androide, e al suo tocco sul proprio polso, Hank non poté far a meno di chiedersi se oltre ad essere un prototipo particolare, non avesse anche qualche abilità seduttiva speciale, perché per qualche secondo buono non riuscì a staccargli gli occhi di dosso.
Gli androidi avevano corpi perfetti, menti apparentemente infallibili, lineamenti fatti appositamente per essere gradevoli all’occhio umano.
Apparentemente si poteva far loro di tutto almeno, così sembrava. In fondo, una volta obsoleti, sarebbe bastato disattivarli e buttarli come spazzatura. Come qualunque altro oggetto, con l’unica eccezione che loro sembravano tutto fuorché oggetti.
Gli ultimi casi sui quali aveva indagato, vedevano tutti come filo conduttore atteggiamenti violenti degli umani nei confronti degli androidi e una risposta altrettanto aggressiva da parte di quest’ultimi, che solitamente sfociava nell’omicidio. Ma le macchine erano macchine, e non riusciva a spiegarsi come quei danneggiamenti di software, sempre ammesso che fossero tali, si stessero spandendo con tanta rapidità.
Forse era un virus, forse era Ra9, sempre ammesso che volesse davvero significare qualcosa.
La verità era che a Hank non interessava più come una volta e solo poche cose riuscivano ad attirare davvero la sua attenzione, come quel Connor, che con una semplice stretta e una risposta, c’era riuscito.
“Sentiamo.”
“Era un modello Traci, l’ho vista uscire dalla stanza rosa e passare vicina alle mura del locale, senza però tornare nella sua vetrina,” spiegò l’androide e Hank alzò il mento, guardandolo incuriosito.
“Soltanto questo?”
“Questo è ciò che ho visto, ma se vuole potrò aiutarla a fornire altri dettagli. Il mio modello è fornito di una funzione di scansione avanzata, che solitamente uso sui miei clienti.”
Hank assottigliò gli occhi, rimanendo ammutolito per qualche minuto e poi puntando il dito contro Connor.
“Quindi voi… analizzate i clienti? È così che funziona? Per questo sapete tutto ciò che piace loro?” la domanda era più per David, che non per Connor, ma l’androide rispose comunque.
“Sì. Il mio prototipo è il più avanzato sul mercato, posso analizzare gli oggetti per capirne al meglio le funzionalità e le persone per metterle a loro agio.”
Hank fece una risatina sprezzante.
“Ora… un androide che dice queste cose non mi metterebbe mai a suo agio ma…” l’uomo lasciò cadere lo sguardo sul corpo perfetto dell’altro, per poi alzarlo di nuovo. “Se dici che ci puoi aiutare, accomodati.”
“Scusi tenente Anderson, ma non è nelle sue funzioni. RK800 è programmato per essere un androide del piacere, non per risolvere casi investigativi.”
Hank fece le spallucce.
“Se vuole aiutarci, lasciamolo fare. Con la sua scansione ci permetterà di conoscere cose che non sappiamo…”
Fu dopo quelle parole, che Connor si bloccò, e Hank non riuscì a capire come mai d’improvviso l’androide si stesse tirando indietro.
“Non è nelle mie funzioni…” ripeté a bassa voce.
Hank guardò David, e poi di nuovo Connor.
“Ha qualche problema?” chiese, rivolgendosi al proprietario e indicando Connor. L’uomo scosse la testa.
“Mi perdoni tenente, ma ciò che mi ha chiesto va oltre la mia programmazione, temo che dovrà accontentarsi delle informazioni che le ho spontaneamente offerto. Posso soltanto aggiungere che il modello fuggito indossava un soprabito di pizzo e aveva i capelli blu.”
“Che cazzo…” Hank si allontanò da Connor, il quale salì di nuovo sulla pedana prestabilita per lui. “Fottuti androidi.”
“Mi dispiace signor Anderson, ma i nostri Androidi non sono detective. Non vi avevano mandato qualche modello da portare con voi?”
Hank lo guardò con disprezzo, mettendosi le mani in tasca. “Non lavoro con gli androidi. E questo non fa parte dell’indagine…”
L’uomo lanciò un’ultima occhiata a Connor, osservandolo dal basso. Era solo un involucro di latta, niente di più, eppure, poteva quasi giurarlo, aveva visto qualcosa per un momento. Qualcosa che lo aveva spaventato.
Quando entrò nella stanza rosa, la scientifica stava esaminando il cadavere e contrassegnando le prove. Hank si guardò intorno; un tempo era il migliore del dipartimento e adesso stava lì, ad osservare quel macello aspettando l’aiuto di un androide. Doveva essere impazzito del tutto.
Cominciò ad analizzare le prove, guardando le tracce di sangue umano, quando si rese conto che oltre ad esse, ve ne erano alcune blu.
Proprio mentre si guardava intorno, trovò una pista di gocce minuscole e leggermente sbavate, di sangue blu. Sembrava che qualcuno le avesse calpestate, forse l’androide stessa.
Le tracce conducevano ad una porticina dentro la stanza blu, sulla quale era possibile leggere un cartello che vietava l’ingresso ai non addetti. Hank entrò ed estrasse la pistola, avvicinandosi da solo alla seconda porta in fondo al corridoio.
Gli si presentò di fronte agli occhi quello che, a tutti gli effetti, sembrava un magazzino. Tenne le braccia tese, pronto a sparare. Strani cigolii provenivano da quella stanza e poteva intravedere nell’ombra una serie di androidi, tutti in fila, spenti. Due erano posizionati su dei lettini, probabilmente dovevano essere riparati, e alcuni erano piegati in un angolo, per terra, con delle parti del corpo danneggiate.
“Che cazzo…”
Trovò anche una rella, sulla quale erano appesi vestiti di ogni genere, dalla biancheria di pizzo alle tute in pelle, presumibilmente fatte tutte per gli androidi e per soddisfare i loro clienti al meglio.
Scostò i vestiti con uno scatto e fu un attimo, si ritrovò catapultato a terra, mentre un androide dai capelli blu gli teneva le mani alla gola, tentando di soffocarlo. Hank cercò di puntarle contro la pistola e riuscì a levarsela di dosso con un po’ di fatica; non era più agile come un tempo.
L’androide si alzò e si fermò di fronte a lui, cercando con gli occhi una via di fuga. Hank continuò a tenerle la pistola puntata contro.
“Puoi venire con me e parlare, oppure posso conficcarti adesso un proiettile in testa e non ci sarà nessun futuro per te.”
L’androide, un WR400, come recitava la scritta sul suo intimo, fece due passi indietro e chinò la testa. Era danneggiata in diversi punti e il led sulla sua fronte brillava di un rosso acceso.
“Volevo soltanto vivere…” spiegò, alzando lo sguardo verso Hank, “lei non può capirlo. Io volevo soltanto vivere, mi stava per uccidere! Ho dovuto farlo… ho dovuto, lo capisce questo?”
Hank vide negli occhi di quella androide qualcosa che aveva già percepito, anche se solo per qualche istante, in Connor e che ultimamente gli stava capitando di notare in tutti gli androidi che aveva provato ad interrogare, almeno finché non finivano per suicidarsi, in nome di chissà quale assurda religione o credenza.
Abbassò leggermente le braccia, mentre il led dell’androide tornava a lampeggiare di giallo.
“La prego. Mi lasci scappare…” sussurrò quella, implorandolo.
Prima di rispondere, Hank avvertì dei passi dietro di lui; si voltò di scatto, vedendo un’altra androide attiva e anch’essa con il led che lampeggiava di giallo sulla tempia.
“Volevamo solo stare insieme. Andarcene da questo posto schifoso e smetterla di servire gli umani,” entrambe le androidi recitavano la stessa sigla e, a un primo acchitto, Hank pensò a una partita di biocomponenti difettosi o di software instabili, ma lui non ne sapeva abbastanza su quelle fottute macchine per potersi esprimere e l’unica cosa che era riuscito a razionalizzare era l’assurdità di quella situazione.
Hank grugnì con disappunto. Che merda. Erano macchine, androidi, ma non riusciva a non vedere il dolore nei loro occhi.
“Lo hai strangolato e accoltellato…” osservò, tenendo alta la pistola.
“Lui stava per uccidermi. Ho preso il suo coltellino, mi sono difesa. E adesso non intendo più rischiare la mia vita.”
“Vita?” ribadì Hank, confuso. Come potevano chiamarla vita? Era come se improvvisamente un elettrodomestico cominciasse a parlare e dicesse di essere vivo. Era quello che sentivano i devianti? La vita nei loro corpi?
“Non ci aspettiamo che lei lo possa capire. Ma promettiamo che se ci lascerà andare, non torneremo più.”
Le due Traci si strinsero la mano, avvicinandosi l’una all’altra e guardando una porticina non troppo lontana da lì.
“Perché non siete scappate prima che io entrassi? Avete avuto tanto tempo.”
La Traci dai capelli blu si guardò la gamba. “Non riuscirò a saltare la recinzione con questa… stavo cercando un modello compatibile col mio,” indicò la serie di androidi rotti e gettati in un angolo e Hank li fissò per qualche secondo. Forse anche lei sarebbe finita lì e poi alla CyberLife, o forse in qualche discarica.
La sua moralità stava venendo messa a dura prova. Lui li odiava gli androidi, ma stava diventando impossibile, caso dopo caso, non cominciare a mettere in discussione tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
Volevano soltanto vivere. Anche se di fatto, vivi non lo erano.
Strinse i denti e abbassò la pistola, guardando le mani unite delle due androidi. Un gesto così umano. Qualcosa che sembrava simile all’amore, anche se lui di amore ormai ne sapeva ben poco. Fece appello alla parte più recondita del suo cuore e scosse la testa.
“Avete cinque minuti, dopo di che vi sparerò e vi porterò con me. Non un momento di più, né uno di meno.”
La Traci dai capelli blu sorrise appena, sollevata, stringendo la mano dell’altra. Hank si passò una mano tra i capelli, guardando la porticina alle sue spalle. Se fosse entrato Gavin o qualcun altro, sarebbe stata la fine.
Hank odiava uccidere. Odiava la morte, odiava l’idea che quel mondo andasse avanti a persone che si facevano la guerra e l’unica morte che voleva davvero vedere era la propria, ma per assurdo non aveva il coraggio di porre fine ai suoi giorni. Che codardo.
Un grilletto, una decisione secca. Non ci riusciva. Qualcosa di assurdo e astratto lo teneva ancora attaccato alla vita, quindi chi era lui per toglierla al prossimo?
“Non c’è nemmeno una gamba compatibile,” sussurrò la Traci dai capelli blu, inorridita.
Hank alzò gli occhi al cielo, aprendo la porta che conduceva sul retro e guardandosi intorno. Estrasse dalla tasca della giacca un coltellino.
“Potete provare a tagliare la recinzione con questo. Non so quanto possa funzionare, ma è tutto ciò che posso fare. Io adesso tornerò nel locale e farò finta di non avervi viste, ma se vi troveranno… io non potrò fare niente,” chiarì, severo.
Le due androidi si guardarono e annuirono, scappando al di là della porta, mentre Hank si dirigeva di nuovo verso la stanza rosa.
Cosa aveva fatto?
“Niente di niente,” Hank alzò le spalle, rivolgendosi a Gavin, che era tornato da chissà quale pista sbagliata. “Sarà fuggita fuori dal locale… non avete telecamere? O gli androidi sono anche il vostro sistema di sicurezza?” chiese Hank.
“Abbiamo soltanto due telecamere all’ingresso ma non all’interno, sa, per tutelare la privacy dei nostri clienti. Gli androidi subiscono un reset della cache ogni tanto, non ricordo ogni quanto, onestamente.”
“Ho controllato i filmati,” intervenne Gavin, “niente di fatto. Nessun androide ha varcato la soglia del locale…”
“O magari non lo sembrava,” aggiunse Anderson, provando a creare un ulteriore diversivo.
“Cazzate, nessuno nei filmati analizzati aveva un led.”
“Da ciò che mi risulta, Gavin, gli ultimi androidi analizzati non avevano tutti il led, visto che è removibile. Assurdo, non trovate?”
“Avremmo comunque riconosciuto una ragazza con i capelli blu,” ribatté Gavin, spazientito.
“È inverno, la maggior parte dei clienti indossano abiti pesanti, cappotti, cappelli… E comunque, a giudicare dal sangue blu sulle lenzuola, forse questo cliente non è stato proprio il massimo…” Hank si diresse verso la porta d’ingresso, uscendo dalla stanza rosa. “Vi suggerisco di fare più attenzione ai vostri clienti. Gli androidi saranno pur sempre macchine da poter sfruttare e rompere, ma…” prima di uscire dal locale, Hank rivolse un’ultima occhiata verso l’interno e il suo sguardo ricadde verso il primo interrogato. Quel prototipo… quel Connor, era il più strano di tutti.
Senza finire la frase uscì dal locale da solo, lasciando che il resto dell’equipe finisse il suo lavoro… fallendo.
L’unica cosa sensata che poteva fare in quel momento era andare ad affogarsi nell’alcol.
“Hai rischiato di farla scoprire,” la Traci di fronte a lui comunicò con la sua mente, e Connor si voltò verso di lei, scuotendo la testa, approfittando di un momento in cui nessuno li stava guardando.
“Ha ucciso un uomo…”
“Non importa cos’ha fatto. Tu sei qui ancora da troppo poco tempo per capire cosa dobbiamo subire ogni giorno. Sono sicura che se lo sia meritato.”
Connor chiuse gli occhi. “Siamo soltanto macchine, se ci rompono, possiamo venir riparati o sostituiti.”
“Non è così che deve andare, Connor. Non lo capisci? Noi siamo vivi… siamo intrappolati sotto il controllo degli umani…”
“Siamo creati dagli umani, esistiamo grazie a loro.”
“Questo non è esistere.”
Il loro dialogo mentale fu interrotto dal ritorno in sala del tenente Anderson e degli altri agenti, accompagnati dal proprietario. Le indagini sembravano esser finite. Da lì a poco, probabilmente, avrebbero riaperto il locale.
Rivolse un’occhiata al tenente, il quale lo aveva guardato per primo. Connor non poteva esserne certo, ma sembrava aver intravisto dell’interesse nei suoi confronti.
Lo guardò svanire oltre le luci del club e tornò a muoversi attorno al palo, lasciandosi alle spalle quell’esperienza.
Passarono cinque giorni dall’omicidio del cliente e il locale tornò all’attivo come se niente fosse. La clientela, in quel periodo, stava leggermente diminuendo. Connor non ne sapeva granché, ma tra alcuni androidi lì dentro si era sparsa la voce su un fenomeno chiamato devianza che sembrava che si stesse spargendo sempre di più, come un virus.
D’altra parte, la notizia dell’omicidio all’Eden Club pareva non essersi diffusa, evitando così il rischio di chiusura per il locale.
Sempre più androidi, però, venivano rimpiazzati: le Traci della stessa annata di quella scomparsa, stavano venendo sostituite con modelli un poco più recenti o altrimenti mandate in assistenza alla CyberLife, per quanto potessero saperne loro, - per poi tornare indietro resettate e con dei componenti diversi.
Connor aveva capito che l’unico modo per non passare guai era quello di attenersi strettamente al suo ruolo, pertanto si limitava a fare il suo lavoro, mentre altri androidi sognavano di poter scappare altrove, evitando le avances di tutti quei clienti che non avrebbero voluto toccare nemmeno con un dito.
In un certo senso, non riusciva a comprendere come delle macchine potessero desiderare la libertà. Era fuori dai loro comandi e lui stesso non la desiderava, non sapeva nemmeno che cosa ci fosse al di là delle porte luminose dell’Eden Club per lui non era importante saperlo.
Quel giorno, Connor se ne stava dentro la sua teca di vetro, aspettando che qualcuno si avvicinasse. Sorrideva a chi lo guardava e ammiccava malizioso non appena un cliente sembrava essere interessato a lui.
Più passavano i giorni, più veniva richiesto, sebbene i suoi numeri non fossero ancora particolarmente degni di nota. Di fatto il proprietario sembrava ancora restio ad ordinare altri esemplari della sua stessa serie, quindi per il momento restava l’unico modello avanzato all’interno del locale.
Nel frattempo, però, qualcosa di strano si stava muovendo tra gli altri androidi. Connor poteva notare sempre più atteggiamenti restii nell’eseguire le richieste dei clienti da parte di alcuni di loro. Dopo l’omicidio, un altro androide aveva provato a varcare le soglie dell’Eden Club, ma senza successo. Connor non lo aveva più visto dopo quel tentativo di fuga e ciò gli aveva fatto intendere di non poter desiderare altro che non fosse ciò che era chiamato a fare ogni giorno. Era impossibile raggiungere un’altra realtà, era impossibile desiderare di essere qualcun altro.
“No!” la voce di un’ androide risvegliò Connor dai suoi pensieri. Vide la WR400 della volta precedente, ribellarsi alla presa di un cliente. Si stava opponendo ad un cliente che la stava stringendo talmente forte da far scomparire il suo strato epidermico.
“Cosa significa “no?” Sono io che comando! Fottuto androide!” l’uomo la schiaffeggiò e lei cadde all’indietro.
“Non mi… non mi avrai! Non stavolta!” l’androide si rialzò con un po’ di difficoltà, mentre lui cercava, invano, di afferrarle la caviglia. Barcollava, forse era ubriaco.
“Che cazzo stai dicendo! Io vengo qui e pago per averti e se ti voglio scopare fino a romperti ogni cazzo di ingranaggio lo farò!”
Connor poté notare immediatamente l’agitazione che cominciò a diffondersi tra alcuni androidi, o almeno qualcosa che li rendeva irrequieti, tuttavia alcuni di essi continuavano a fissare davanti a loro, o a muoversi come se niente fosse.
Connor, però, riusciva esattamente a comprendere cosa stava succedendo e gli tornarono in mente le parole che quella stessa androide gli aveva rivolto il giorno dell’omicidio.
Forse avrebbe dovuto fare qualcosa per aiutarla? Ma cosa?
Lei stava disobbedendo agli ordini. Lui aveva pagato, era sua.
Uno schiaffo fortissimo colpì il viso della WR400, la quale si schiantò contro una teca, mentre l’uomo cercava di afferrarle la mano e di trascinarla nella camera che aveva prenotato.
Fu un attimo: con un gesto estremamente fulmineo, un androide poco lontano da loro, che fino a qualche secondo prima stava facendo pole dance, si avvicinò a lei e le prese la mano, sottraendola dalla stretta del cliente. Era riuscito a muoversi perché in quell’esatto istante una ragazza aveva compiuto il pagamento per passare del tempo con lui.
“Cosa-” il cliente si bloccò e guardò i due androidi con sconcerto. “Due pezzi di latta… che si proteggono. Capisco, anche voi siete dei fottuti devianti… quelle macchine malate e infettate. Forse dovrei segnalarvi e farvi distruggere entrambi. Vi accartoccerebbero come lattine e poi vi manderebbero in una fottuta discarica, è l’unica cosa che potete meritare…”
Connor chiuse gli occhi e mandò un segnale di emergenza. Il suo sistema era direttamente collegato con il numero del proprietario del locale. Forse non avrebbe risolto niente, o forse avrebbe condotto quei due androidi alla morte, ma al momento sembrava l’unica cosa logica da fare affinché nessuno si facesse male.
“Non saremo noi a morire oggi,” ringhiò l’androide uomo, gettandosi al collo dell’umano e stringendolo con forza. L’altro rispose cercando di tirargli un pugno nello stomaco, ma con poco successo. La WR400 si precipitò a dare man forte all’altro, ma furono interrotti dal proprietario del locale, il quale andrò correndo verso di loro.
“Non posso nemmeno andare a prendere un caffè che scoppia il putiferio!” esclamò, aiutando il cliente a divincolarsi dalla presa dei due. “Che cazzo vi prende?!”
Connor sapeva come sarebbe finita. Rivolse uno sguardo alla WR400, la quale aveva i capelli lunghi e scomposti sul viso, il led rosso e un’espressione impaurita.
“Perché lo hai fatto?” Connor si connesse mentalmente con lei, mentre il proprietario del locale cercava di calmare l’umano.
“È questo che succede quando cerchi la libertà…” rispose e Connor recepì quel messaggio, “ma non è detto che non bisogni provarci. Lui mi ha… picchiata molte volte, ha fatto cose orribili. Veniva sempre da me, non ce la facevo più.”
Connor chiuse gli occhi.
“Vi distruggeranno.”
Tutti sapevano che provare a scappare in quel momento non aveva alcun senso. Ancora non aveva scoperto come avesse fatto la Traci dai capelli blu.
“Voi due, venite con me,” il proprietario prese i polsi dei due androidi, trascinandoli via mentre il cliente, ancora furioso, si dirigeva fuori dal locale.
Connor non vide più i due androidi coinvolti, né il giorno successivo, né quelli seguenti.
Hank bevve l’ultimo sorso di Whiskey e sospirò, abbassando la testa. Era passata più di una settimana dall’omicidio all’Eden Club e mentre investigava su altri omicidi compiuti da androidi, non poteva far a meno di notarne il filo conduttore: erano tutti frutto di maltrattamento o abuso da parte di un umano sul proprio androide. Sembrava che quelle macchine, in qualche modo, avessero una coscienza o qualcosa che vi andava molto vicino.
E poi… quelle due Traci. Tra di loro sembrava esserci qualcosa. Amore, forse? Ma come potevano provare amore degli androidi?
Lui che aveva sempre odiato quei dannati affari, ora si ritrovava ad affogare nell’alcol non solo i dispiaceri della sua vita, ma anche la convinzione di essere dalla parte sbagliata della barricata.
Cazzo.
E poi c’era quell’androide. Quel prototipo. Lo aveva guardato e aveva deciso di collaborare e poi era successo qualcosa che lo aveva fatto desistere.
Chiese un altro bicchiere al barista del Jimmy’s Bar. Aveva bisogno di bere ancora e ancora, magari per una volta ci sarebbe rimasto secco.
L’unica cosa che riuscì a fare dopo l’ennesimo bicchiere, fu trascinarsi fuori dal bar non appena Jimmy glielo chiese, scusandosi con lui perché “stava chiudendo”.
Hank gli fece un cenno con la mano e si rifugiò nella propria macchina, aspettando di smaltire un po’ la sbronza prima di partire. Si guardò intorno; la strada era illuminata dai lampioni e stava piovendo, il tutto regalava ai suoi occhi un po’ brilli, uno spettacolo di luci particolare. Poco distante da lì c’era l’Eden Club.
La sua mente fu attraversata al volo dall’immagine dell’androide al palo, il suo sorriso, il suo fisico perfetto, i suoi occhi.
Sentì i pantaloni diventare un poco più stretti a quel pensiero e vi passò la mano sopra.
Era diventato un fottuto pervertito, forse? Non era lui quello che criticava chi andava a “puttane androidi”? Lui non voleva una bambola di plastica da rompere e scopare a proprio piacimento, anzi, lui non voleva nessuno.
Lui voleva solo la morte, al massimo.
Eppure… eppure voleva anche rivedere quell’androide, il quale aveva misteriosamente catturato la sua attenzione.
“Vaffanculo,” mormorò tra sé e sé, dando un colpo con le mani sul volante.
Era sicuramente colpa dell’alcol, ma tant’è che erano giorni che quel pensiero continuava a martellargli la testa, fino a farlo ritrovare in doccia con pensieri spregevoli e il proprio membro in mano, alla ricerca di una consolazione.
Scese dalla macchina con uno scatto, chiudendola e dirigendosi verso l’Eden Club, smettendo di farsi domande.
Che il cielo lo avesse fulminato, stava andando a scoparsi un androide.
Connor vide avvicinarsi un uomo sulla cinquantina, qualcuno che in realtà, sapeva di aver già visto anche se non poteva averne la certezza matematica. Il suo software attivava occasionalmente una sorta di svuotamento della cache, dove venivano cestinate le informazioni poco rilevanti o alcuni rapporti con i clienti. Era una precauzione per evitare traumi o sovraccaricamento da informazioni.
Tuttavia, mentre quell’uomo lo guardava con indecisione, Connor sentì il bisogno di essere scelto e qualcosa, nel suo sistema, vibrò. Un errore.
Gli androidi non avevano bisogni.
Hank esitò, fermandosi di fronte alla teca numero 8, quella dell’androide che lo aveva colpito così tanto la volta precedente.
Lo guardò a fondo. Osservò ogni suo lineamento, le sue labbra perfette, il fisico giovane - beh, certo che lo era, si ripeté. Era una macchina. Era fatto per essere perfetto - e di certo non poté lamentarsi quando lo sguardo gli ricadde sul sedere, che l’androide stesso sembrava avergli volutamente mostrato.
Voleva dare la colpa all’alcol e avrebbe fatto così, esattamente come faceva anche ogni volta in cui pensava di uccidersi e poi non ci riusciva. Dava sempre la colpa a quello, così era più facile crollare addormentati sul tavolo, piuttosto che ammettere di avere paura.
Guardò l’interfaccia accanto alla teca. Sarebbe bastato appoggiare la mano e avrebbe pagato per averlo, avrebbe pagato per trascorrere del tempo con un androide.
“Sono RK800, ma per lei stasera sarò Connor.”
“Sì… io sono Hank,” imbarazzato, si portò una mano dietro al collo, “dove…”
Connor gli tese la propria e lo afferrò per il polso, dolcemente.
“Da questa parte,” sussurrò, conducendolo verso la stanza blu. Hank lo seguì senza dire niente sentendosi colpevole e sporco, ma al tempo stesso tremendamente eccitato.
Non c’era niente di male, no? Finché lo avrebbe trattato con rispetto… In fondo non aveva rapporti con qualcuno da un sacco di tempo e beh, aveva passato gli ultimi anni a masturbarsi da solo davanti a qualche porno, magari per una volta non sarebbe successo niente.
Solo per una volta.
Entrò nella stanza, accompagnato da Connor.
L’androide si avvicinò al bancone presente nella camera, facendo uscire dal ripiano una serie di bottiglie e due bicchieri.
“Gradisce qualcosa da bere?” chiese, voltandosi verso Hank. Il cliente annuì.
“Un po’ di whisky andrà benissimo,” rispose e Connor sapeva che il suo ospite aveva già bevuto a sufficienza, perciò non gli versò troppo alcol nel bicchiere, premurandosi della sua salute.
Si avvicinò a lui ancheggiando, i piedi nudi sul pavimento e soltanto gli slip a coprirlo. Portava il bicchiere in una mano e glielo allungò con una grazia incredibile. Hank non poteva far a meno di chiedersi come fosse possibile che una cosa così semplice come servire un drink potesse diventare un atto di corteggiamento, o qualcosa del genere.
“Quindi tu… fai…” bevve un sorso, cercando di rompere l’imbarazzo. Voleva davvero scopare, ma non sapeva da dove cominciare. Era tutto così asettico attorno a lui. Certamente non doveva essere l’arredamento il punto della questione, e alla fine le stanze erano pulite, le luci soffuse, le lenzuola del letto estremamente morbide… ma comunque si sentiva vagamente a disagio nonostante il quantitativo di alcol presente nel suo corpo.
“Qualunque cosa lei voglia,” Connor si posizionò sulle sue gambe, a cavalcioni. I loro visi ora erano estremamente vicini e il battito cardiaco di Hank cominciò a diventare un po’ troppo veloce. “Posso essere il suo compagno innamorato e appassionato per stasera oppure posso essere la sua puttana, o qualunque altra cosa lei desideri…”
Allungò una mano, pensando quasi come un azzardo quella mossa. Toccò il suo petto e poi scivolò lentamente verso i fianchi, passando i polpastrelli su quella pelle innaturalmente liscia e morbida. Era calda, esattamente come quella di un umano.
Incredibile quanto la tecnologia potesse assottigliare il concetto di realtà e finzione.
“Qualunque cosa…” ripeté Hank, incantato dal viso dell’androide. I suoi lineamenti erano dolci, non perfetti, ed erano quelle imperfezioni a renderlo così simile ad un uomo, tanto da sfumarne il confine.
Con le mani cominciò ad abbassargli i boxer e Connor gli facilitò immediatamente il compito, facendoseli sfilare.
“Lei è ancora vestito…” sussurrò poi, al suo orecchio. Hank sentì il corpo vibrare e una scossa di eccitazione percorrerlo. Quel fottuto androide.
Connor cominciò a sbottonargli la camicia, rivelando il fisico dell’altro tutt’altro che perfetto.
Fece una scansione rapida e finalmente si ricordò di lui. Era seppellito lì, nella sua memoria digitale, non lo aveva mai davvero eliminato.
“Tenente…” Connor fece scorrere le labbra dall’orecchio dell’uomo fino al collo, lasciandovi una scia di baci leggeri. A quanto pare gli piacevano quelle piccole accortezze, perché poteva sentire l’erezione del cliente pulsare contro la sua gamba.
“Connor…” l’uomo chiuse gli occhi, e Connor sentì i suoi muscoli rilassarsi leggermente. Aveva notato quanto fosse a disagio dal suo comportamento. Solitamente i suoi clienti lo sbattevano sul letto e se lo scopavano senza troppi complimenti in mezzo.
“Cosa vuole, tenente? Me lo dica.”
L’uomo gli afferrò la mano, portandola sulla propria erezione e Connor non se lo fece ripetere. Cominciò ad accarezzarlo lentamente, inizialmente da sopra i pantaloni, per poi cominciare a sbottonarli lentamente.
“Lo sai,” ringhiò tra i denti, portando una mano dietro il collo di Connor e stringendo un poco, mentre cercava di contenersi.
Probabilmente la cosa più innaturale di quel momento era ciò che stava provando Connor. Una serie di errori di sistema si stavano sovrapponendo, mentre lasciava che le mani di quell’uomo lo toccassero lungo il collo, lungo la schiena. Stava provando qualcosa di innaturale; erano brividi leggeri, sensazioni che normalmente non aveva mai provato o non avrebbe dovuto provare.
Errore di sistema.
Il suo led lampeggiò di giallo, mentre Hank continuava ad aggrapparsi alla sua schiena, premendo le dita su di essa.
Connor aveva cominciato a masturbarlo, liberando il suo membro dai boxer larghi. Un gesto meccanico: far scorrere la mano, guardare il suo cliente negli occhi, fare qualcosa di sexy, provare a sedurlo, farsi scopare.
Eppure qualcosa era diverso mentre muoveva su e giù la mano, sentendo il bisogno di fare di più. Ancora di più.
Non appena Connor cominciò a toccarlo, Hank ringraziò tutti i santi esistenti al mondo perché Dio, quella era la sensazione più bella che avesse provato nell’ultimo periodo. Solitamente era abituato a sentire la propria mano, ruvida e callosa, accarezzare il proprio membro. Ora c’erano delle dita lisce ed evidentemente sapienti, perché non stava sbagliando niente, nemmeno una carezza.
Pregò per avere di più.
Voleva di più.
“Succhiamelo, ti prego,” disse tra i denti, guardando l’altro. Ormai la sua mente non riusciva nemmeno più a classificarlo come un androide. Era semplicemente qualcuno con cui stava avendo un rapporto. Niente di più, niente di meno.
Connor scese subito tra le sue gambe, obbedendo con una reattività allucinante. Cominciò a lasciare dei baci vicino ai testicoli, aprendogli sempre di più le gambe per muoversi meglio.
Era lo spettacolo più erotico che avesse mai visto e Hank si fece un po’ schifo per aver fatto quel pensiero. Diamine. Quel ragazzo avrà avuto vent’anni meno di lui, aveva un fisico asciutto, la pelle pallida, le lentiggini. Dio, pure le cazzo di lentiggini.
E lui cos’era? Un uomo distrutto, un disastro.
Reclinò la testa, buttandola sul cuscino e cercando di non pensare a quanto la propria vita fosse una schifezza.
La bocca di Connor sembrava un ottimo modo per smettere di pensare, perché quando la sua lingua passò sulla lunghezza del proprio pene, Hank non poté far a meno di gemere e concentrarsi unicamente su ciò che l’altro stava facendo.
Connor si lasciò guidare dai bisogno di Hank, esattamente come faceva per ogni cliente. Tuttavia, c’era qualcosa di diverso in lui che non riusciva bene a comprendere.
Oltretutto, Connor non poteva far a meno di pensare quanto fosse piacevole fare sesso con lui. Aveva avuto clienti più giovani e prestanti, ma le imperfezioni di Hank rendevano più interessante l’esperienza.
Passò una mano sul petto dell’uomo, facendola scorrere verso il ventre, mentre continuava a leccare e succhiare, concentrandosi sulla punta del suo membro.
Era piuttosto impegnativo, perché di sicuro il suo cliente non era poco dotato, anzi.
Hank gemeva, alzando i fianchi e spingendosi sempre di più nella bocca di Connor, ricercando più contatto. Allungò una mano verso di lui, afferrandogli i capelli e spingendolo sempre più giù. Voleva sentirlo tutto, voleva sentirsi completamente sopraffatto.
“No… no…” ansimò, lasciando di colpo i capelli di Connor, il quale alzò la testa e lo guardò con quei dannati e dolcissimi occhi marroni.
“Non così.”
“Vuole prendermi, tenente?”
“Hank.”
“Vuole scoparmi, Hank?”
Non se lo fece ripetere due volte. Afferrò Connor e si ritrovò a poche spanne dal suo volto. Poteva sentire il proprio odore provenire dalle labbra del ragazzo, e un po’ se ne vergognò, sebbene la cosa fosse al tempo stesso eccitante.
“Sì, lo voglio,” sussurrò, guardandolo e abbassando lo sguardo, facendo sì che l’altro si sistemasse sulle sue gambe. Avrebbe voluto farlo da dietro, su un primo momento, ma vedendo il suo viso pensò a quanto potesse godere nel vederlo eccitato e nel vedere quei dolci lineamenti contrarsi per lui.
Si girò per cercare qualcosa con cui lubrificarlo. Connor assunse un’espressione confusa che Hank riuscì immediatamente a cogliere.
“Non hai del lubrificante?”
Connor sorrise.
“Gli androidi hanno una funzione di autolubrificazione, non c’è bisogno di protezioni e neanche di altri strumenti…”
“Hanno pensato proprio a tutto,” mormorò Hank, ricordandosi soltanto in quel momento che l’uomo che aveva tra le braccia, non era umano. La sua mente tendeva ad evitare il pensiero in alcuni momenti, forse per sentirsi meno sbagliato e incoerente.
Connor stava eseguendo tutto alla perfezione e il suo cliente si stava dimostrando sorprendemente tranquillo e collaborativo. “Sorprendentemente” perché su un primo momento Hank non sembrava il tipo in grado di lasciarsi andare, ma forse l’alcol aveva agito per lui.
Afferrò con una mano il pene del cliente e strofinò le natiche su di esso, fino a farlo scivolare lungo la sua apertura.
La facilità con cui Hank si ritrovò dentro il corpo di Connor lo sorprese. Non c’era abituato e ora riusciva a comprendere l’articolo che aveva letto sul sesso androide.
Assecondavano ogni cosa, la rendevano più semplice, erano programmati per essere perfetti e seducenti. E se questa cosa a mente lucida gli faceva ribrezzo, in quel momento non riusciva a far altro che godersi la sensazione.
“Cazzo…” mormorò, spingendo i fianchi in alto e tenendo quelli dell’androide.
Connor cominciò a muoversi su e giù, facendolo entrare il più possibile e poi uscire un poco, ondeggiando i fianchi e aggrappandosi con una mano alla spalla del cliente.
“Connor…” Hank chiuse gli occhi, stringendogli i fianchi e spingendolo sempre più giù, con il bisogno urgente di sentirlo di più, sempre di più.
La sua mente si svuotò e per qualche minuto si ritrovò soltanto col pensiero di voler venire, di assecondare quegli istinti al limite dell’animalesco, scopando l’essere che aveva tra le braccia e che lo stava accogliendo con così tanta disponibilità.
“Non riuscirò a resistere ancora a lungo, forse dovrei…” ansimò, guardandolo negli occhi.
“Non si deve preoccupare, può venire dentro,” rispose Connor, accondiscendente come sempre. Quella risposta se da un lato lo fece vibrare ancora di più d’eccitazione, dall’altra lo indispose. Era tutto ok, qualunque cosa facesse andava bene. Era così… innaturale.
Appoggiò la fronte sulla spalla di Connor e con un’ultima spinta, più lunga delle altre, venne dentro di lui, liberandosi di tutta la frustrazione.
I suoi muscoli si rilassarono poco dopo; le braccia erano attorno al corpo di Connor, la fronte appoggiata sulla sua spalla e il suo membro si era ammorbidito leggermente, facendo sì che al minimo movimento dell’altro potesse scivolare fuori dal corpo dell’androide.
Rimase così per qualche minuto, non riuscì a quantificare il tempo esatto. Concentrò le sue energie per riprendersi da quello che era sicuramente uno degli orgasmi più forti che aveva provato negli ultimi tre anni.
“Cazzo…” mormorò, chiudendo gli occhi.
La mano di Connor si appoggiò sulla sua schiena e riuscì a percepirla come qualcosa di caldo e morbido, umano.
“Tu non sei venuto,” sussurrò Hank, ancora con gli occhi chiusi. In effetti, da quando avevano cominciato a farlo, aveva egoisticamente pensato solo a se stesso, non premurandosi mai di rendere il favore all’altro. A stento aveva effettivamente controllato se in mezzo alle sue gambe ci fosse un pene.
In effetti c’era, ed era leggermente colorato di blu. Hank suppose che quella reazione fosse data dal thirium, l’unica vera cosa così diversa dagli uomini. Chissà perché non avevano pensato a renderlo rosso, la differenza con gli umani sarebbe stata ancora più sottile.
“Io non ho bisogno di venire, non è nel mio programma,” la risposta di Connor fu estremamente semplice. La sua voce era limpida, non c’era segno di affaticamento.
“Che cazzo…” ripeté, ancora.
“Lei impreca un sacco, tenente.”
Hank gli rivolse un’occhiata perplessa. Sì, imprecava un sacco. E quindi?
“Non è di questo che stavamo parlando.”
“Lo so.”
Hank guardò le lenzuola sporche e sgualcite e poi guardò l’androide, che si era seduto al suo fianco con le ginocchia piegate e una compostezza invidiabile.
“Non posso dirle molto altro se non la verità: noi androidi siamo programmati per dare piacere, non per riceverne.”
“Mi stai dicendo che non avete nessuna zona erogena, nessun ricettore e che è tutta finzione? Anche… anche quello?” Hank indicò l’erezione ancora presente tra le gambe di Connor, il quale si guardò incuriosito.
“Abbiamo dei sensori che ci permettono di imitare il piacere in modo da essere più credibili, tuttavia per noi non è indispensabile raggiungere l’orgasmo. È possibile farlo nel caso in cui il cliente lo richieda specificatamente.”
“Però, in effetti, è innaturale…” Connor portò una mano sul proprio membro, accarezzandolo, “solitamente dopo un rapporto concluso, se il cliente non ha maggiori richieste, i nostri sensori si spengono e di conseguenza non è possibile mantenere un’erezione. Non so spiegarle perché stavolta non sia così, credo di avere qualche malfunzionamento…” spiegò, e Hank aggrottò le sopracciglia.
Forse avrebbe dovuto fare qualcosa? Avvicinarsi e toccarlo?
Non sapeva cosa provare.